QUASI UN TRATTATO DI PERFORMANCE EPICA: IL CANTO VIII DELL'ODISSEA L'Odissea: Viene composta tra il XII e il X secolo a.C.; probabilmente il poema metabolizza fonti inverificabili perché restate orali e non documentate, ma la sua struttura è talmente forte e 'costruita' da indicare, se non l'esistenza di un autore unico, l'esistenza di un redattore unico, di un autore, cioè, che abbia rifuso e potentemente strutturato una molteplicità di narrazioni precedenti; l'Odissea non presenta le vicende capitate ad Ulisse secondo il senso cronologico del loro accadere, e cioè, non inizia dalla partenza da Troia, ma mostrandoci il protagonista tra le amorevoli braccia della ninfa Calipso. Atena, grande protettrice di Ulisse, invita l'eroe ad uscire dall'assopimento sensuale che gli ha fatto dimenticare moglie e patria e a riprendere ancora una volta il viaggio verso Itaca. Nell'Odissea il soggetto (e cioè la successione degli eventi secondo l'ordine con cui accadono) incomincia con la partenza di Ulisse da Troia distrutta, mentre l'intreccio (e cioè la successione degli eventi secondo l'ordine in cui vengono presentati) incomincia con l'abbandono di Calipso.. Scelta che pone un problema consistente: quando Ulisse torna a viaggiare verso Itaca ha già incontrato, lungo il precedente tragitto che l'ha portato all'isola di Calipso, Polifemo, Scilla e Cariddi, i lotafogi, le vacche sacre del sole, il canto delle Sirene. Tutti gli episodi per cui l'Odissea è famosa, all'inizio dell'intreccio omerico, sono già avvenuti. Fatto che, già di per sé, mostra come l'Odissea strutturata da Omero sia stata intenzionalmente pensata come una narrazione anche incentrata sull'arte di narrare. Una narrazione, insomma, che contenesse ed esplicitasse la dinamica performativa che la generava nell'azione del cantore (il supporto di Omero era la memoria, il suo strumento l'atto del racconto). I versi omerici vennero probabilmente probabilmente trascritti tra il VI e il V secolo ma, in proposito, non c'è alcuna certezza. Per dare un'idea del rapporto cronologico tra l'Odissea e la forma tragica, va ricordato che la prima tragedia sicuramente datata è i Persiani di Eschilo del 472 a.C. Qualora l'Odissea sia stata trascritta intorno al VI secolo, quasi cento anni separano la sua versione dalla prima tragedia nota; nel caso, invece, che la scrittura si sia affermata solo più tardi in ambito poetico, come suppone Havelock, uno dei principali critici e studiosi del rapporto tra oralità e scrittura nell'antica Grecia, è probabile che il passaggio dall'oralità e scrittura nell'antica Grecia, abbia contemporaneamente interessato le tragedie eschilee (forse dapprima composte con modalità miste) e i poemi omerici. Il fatto che Eschilo abbia potuto essere fra i primi lettori dei poemi omerici e che, valendosi del supporto della scrittura, si sia forse dedicato allo studio minuzioso dei loro intrecci, dialoghi e personaggi, avvalora la valutazione platonica secondo la quale Omero va considerato il primo tragico. E' un riconoscimento che non solo evidenzia la teatralità dei suoi dialoghi e delle scene d'azione, ma, per così dire, intuisce o riflette con cognizione di causa l'azione maieutica svolta dalle versioni scritte dell'Iliade e dell'Odissea che - forse- svelarono ai tragici i meccanismi emozionali e sensoriali, di ricordo e pensiero che costituiscono i personaggi. Come si diceva, l'argomento dell'Odissea inizia con la partenza da Troia, mentre l'intreccio omerico parte dall'isola di Calipso. Questa scelta fa sì che le avventure che punteggiano il viaggio che va da Troia all'isola di Calipso debbano venire narrate all'interno della narrazione omerica. Da chi? A chi? In che contesto? Per che ragione? E' presto detto. Da Ulisse; agli ospiti di Alcinoo, il re dei Feaci; nell'ambito di un banchetto - il luogo deputato ai racconti ed alle esibizioni dei rapsodi -; a causa del riconoscimento che costringe il protagonista del poema a spiegare come mai, partito da Troia e dato per disperso in mare, abbia finito per trovarsi lì, fra i Feaci, alla mensa di Alcinoo. La narrazione di Ulisse è però preceduta da un episodio dedicato all'arte della narrazione, dove Omero stesso, prima di trasmettere al proprio personaggio la funzione di narratore/guida dell'opera si rappresenta nei panni di Demodoco, il divino cantore cieco. Riporto in parte il Libro VIII dell'Odissea. Il poema è intessuto di formule che richiamano la composizione orale del testo. Quando si nomina Alcinoo si ripete continuamente 'simile ad un dio', quando si parla di Ulisse (o di Odisseo) si dice 'l'astuto Odisseo', quando si parla di Giunone è sempre 'dai begli occhi bovini'. Per ogni evento e personaggio c'era una formula che aiutava il compositore a comporre estemporaneamente del testo. Le formule non sono solo organismi verbali che danno slancio all'improvvisazione del verso - che, grazie al loro inserimento presenta, al cantore originario (colui che lo improvvisa) misure già in parte colmate e delle quali, per così dire, vanno semplicemente colmati i vuoti -, ma sono anche veicoli di immagini, di impressioni, di notazioni morali che si stampano nell'immaginario dell'ascoltatore. Per cui, ad esempio, il rosa si effonde alla parola 'alba', la regalità intride la figura di Alcinoo simile a un dio, l'arte di interrogare e convincere accompagna come un'ombra 'l'astuto Odisseo'. Le formule sono organismi sonori che guidano la composizione orale del testo agendo al contempo sulle facoltà ricettive degli ascoltatori. Vv. 1 e sgg In questa narrazione tutti agiscono. E tutte le azioni sono sollecitate dalla preparazione alla festa in onore dell'ospite trovato da Nausicaa sulla spiaggia. Il banchetto festivo è un evento capitale nella civiltà greca. E qui, nell'Odissea, tale riunione risulta ulteriormente avvalorata dal fatto che al suo interno il protagonista inserirà, narrando, le parti mancanti della sua storia. Se non ci fosse la festa non ci sarebbe il poema perché l'intreccio parte quando gran parte delle vicende sono già accadute. L'economia narrativa ci fa dunque capire perché il povero Ulisse, trovato riverso sulla spiaggia, debba venire fatto oggetto di tanta ammirazione, e perché Atena, in veste di messaggero, vada di fianco a ogni cittadino e gli dica di onorare l'ospite. Quello che, da parte della dea, sembra un atteggiamento protettivo è, nella realtà del calcolo omerico, un dispositivo narrativo che rende credibile l'entusiasmo dei Feaci, spianando la strada al banchetto e al grande racconto di Ulisse. All'inizio della festa, nella sala del palazzo di Alcinoo, viene fatto chiamare il grande cantore Demodoco, ispirato dal dio e cieco. Omero, letteralmente, significa 'i ciechi'. Il cantore divino per eccellenza è il cantore cieco: colui che non vede ma può descrivere ciò che non vede e non sa perché ispirato da furore poetico. A questo riguardo la dottrina della poesia platonica non fa che riprendere e articolare un valore già radicato all'interno dei poemi omerici. La festa è in corso e Ulisse è presente. Ma la sua narrazione non inizia immediatamente. Prima che Ulisse narri, Omero, primo narratore, introduce con Demodoco, l'arte del racconto, che , di questa parte del poema, è l'effettiva protagonista - e non solo la sottesa dinamica motrice. Il narrare, insomma, si fa qui argomento di narrazione. Vv. 62-82 Il canto di Demodoco è un canto in situazione che si svolge nel corso di un banchetto, dove i commensali mangiano e bevono. Il canto inizia quindi quando la fame è saziata e poi si sospende dando modo ai commensali di interagire con brindisi che, fatti in onore del cantore, aumentano l'ebbrezza collettiva intrecciandola alla richiesta di altri racconti. Sorpresa. L'argomento di Demodoco è la lite di Odisseo e del pelide Achille'. Cioè, Demodoco, nell'Odissea , canta l'Iliade . Ulisse non ha fatto in tempo a tornare ad Itaca, che le sue vicende già alimentano un patrimonio mitico condiviso di cui si canta all'interno dei banchetti. Vv. 83-95 Immaginiamo visivamente la scena omerica. Piano sequenza, tutti mangiano e conversano. Primo piano, l'attenzione si focalizza sul cieco cantore che comincia il racconto. Primo piano, l'attenzione si focalizza sul cieco cantore che comincia il racconto. Piano sequenza, mentre Demodoco canta vediamo Ulisse che, udendo le sue stesse vicende, piange. Solo l'ascoltatore se ne accorge. All'interno della narrazione omerica, infatti, i Feaci non vedono la commozione dell'ospite che nasconde il pianto sotto il mantello. E' una scena ricca di tratti realistici: Odisseo sente la sua stessa storia, si copre per non farsi vedere, piange di nascosto, nessuno se ne accorge perché sono tutti presi dal canto di Demodoco; smesso il canto l'eroe si asciuga le lacrime, si toglie il cappuccio, prende la coppa, la innalza a due mani e liba agli dei. Omero ci descrive qualcosa che è al contempo ricorrente (un banchetto allietato da racconti) ed eccezionale (il protagonista delle storie narrate è presente sotto mentita veste), di qui il suo realismo epico. La scena, nel predisporre la narrazione di Ulisse, descrive - ma quasi, direi, documenta - una prassi narrativa, che, necessariamente, Omero doveva conoscere benissimo. Il cantore arriva, partecipa al banchetto, ha una posizione centrale, è fatto oggetto di omaggi, lo si mette in condizione di mangiare, a un certo punto del banchetto prende la cetra, gli è stato mostrato come prenderla, e inizia il canto. Il canto non è continuo ma si interrompe per dar modo al pubblico di omaggiare il cantore. La scena è precisa, minuziosa. Non solo, Omero ci comunica anche la veridicità, la credibilità, la rispondenza al vero del racconto intonato dal cieco Demodoco. Il fatto che Ulisse si commuova fino alle lacrime indica, infatti, che il cantore, ispirato dalla Musa, descriva con vivacità e immediatezza una situazione - la lite tra Ulisse e Achille - della quale non è stato testimone e che, in ogni caso, non avrebbe potuto vedere. Omero vuole qui radicare nell'ascoltatore l'idea che i poemi siano la realtà del racconto, e lo siano al punto che anche chi, avendo vissuto le vicende narrate, non riscontri, udendole, difformità o invenzioni. La descrizione del banchetto riflette i ritmi che regolano il passaggio del mangiare al canto, non c'è mai una sovrapposizione, quando si è mangiato comincia il canto, quando il canto si sospende i partecipanti libano. E' una descrizione che fornisce un'idea abbastanza precisa di come, nella storia del teatro, si siano storicamente svolti gli incontri tra cibo e spettacolo. Il poema mostra che la stretta vicinanza tra cibo e canto non indebolisce l'aura divina del cantore, anzi la rafforza. Non dimentichiamo che nella civiltà greca l'offerta del cibo regola i rapporti tra uomini e dei, fra i vivi e i morti. Il cibo, cioè, è il varco che consente di avvicinare altri mondi, quello dei morti, quello degli dei. Le due funzioni della bocca, quella masticatoria che immette il cibo ridotto a poltiglia nelle cavernose profondità dell'organismo, e quella fonatoria, che libra nell'aria il suono del canto e del parlato - per Platone, il primo canto - si combinano qui in un'alleanza fra corpo e mente che include - tramite la ritualità degli atti e la veridicità del racconto - mondi sottratti all'esperienza sensibile. Vv. 487-498 Omero si dice da solo - tramite il complimento rivolto da Ulisse a Demodoco - che canta in modo perfetto la storia degli Achei. Demodoco è quello che si chiama un ruolo vicario dell'autore: un personaggio che esplica la funzione autoriale, facendola, per così dire, uscire dal retroscena e rendendola immediatamente percepibile. Uno dei nodi, una delle problematiche chiave del narrare, è la funzione testimoniale dell'autore, il quale si fa testimone di fatti che non ha avuto modo di osservare nella misura in cui ne consente l'immaginazione. L'astuto Ulisse, senza ancora svelare la propria identità, vuole mettere alla prova Demodoco. Non si fida ancora pienamente della qualità della sua ispirazione. Dopo tutto, la vita sociale consentiva tutti i giorni di osservare liti, da cui trarre - avrebbe detto Aristotele - elementi verosimili - e cioè universalmente riconosciuti. Elementi che, una volta applicati alla descrizione di un fatto specifico (come la lite con Achille), l'avrebbero resa credibile anche ai protagonisti reali dell'episodio. Così Ulisse invita Demodoco a narrare l'episodio più particolare e caratteristico della guerra di Troia, l'episodio che non trova termini di paragone con altre guerre, quello del cavallo di legno, che conclude la vicenda con la distruzione del mondo troiano. Se l'aedo riuscirà a narrare qualcosa che solo un testimone diretto avrebbe potuto descrivere con esattezza, Ulisse promette di riconoscere a Demodoco (e quindi ad Omero), una grandezza divina nell'arte del narrare. Vv. 521-523 Anche questa narrazione di Demodoco è, come la precedente, straordinariamente efficace, sicché Ulisse sentendo riaffiorare dalle parole del cantore il momento culminante del conflitto, piange disperatamente, in modo così dirotto e incontrollabile da non poter venire nascosto ai Feaci. Vv. 523-531 Omero, per spiegare la natura del piano di Ulisse, fa del primo termine di paragone - una donna che piange - un vero e proprio personaggio. E cioè attribuisce a questa donna azioni, congiunti, nemici, un destino. Il pianto di Ulisse è simile al pianto di una donna che ha visto il marito combattere e morire, si precipita sul suo cadavere, viene percossa e tratta schiava. Udendo narrare la distruzione di Troia, Ulisse piange dunque alla maniera delle donne troiane che, in quel conflitto, avevano perso i mariti e libertà. Le risorse del narrare, ci fa intuire Omero, sono più misteriose e varie di quelle che l'astuto Ulisse aveva creduto di appurare chiedendo a Demodoco di raccontare la storia del cavallo di legno. Le immagini della narrazione, infatti, integrano, in inusitati montaggi, ciò che le vicende separano: il maschile e il femminile, i maschi vincitori e le donne vinte. LIBRO IX Ulisse dietro invito del re Alcinoo, che si è accorto della commozione dell'ospite, rivela la propria identità. L'agnizione è un luogo centrale della tragedia greca. L'agnizione rileva, ad esempio, il quello stesso Edipo, che cerca di scoprire l'assassino di re Laio, l'autore del delitto. Qui, Ulisse, rivelando la sua vera identità ai Feaci, cambia immediatamente ruolo, non è più, come tutti gli altri, un semplice ascoltatore delle storie narrate da Demodoco, ma ne è il protagonista, così, in quanto oggetto dell'attenzione generale, passa naturalmente dalla posizione di protagonista/ascoltatore delle proprie vicende, a quello di protagonista/narratore del vissuto. A partire da questo momento, Ulisse può iniziare il suo racconto, ma, prima, c'è un'ulteriore dilazione costituita da due omaggi: l'uno è rivolto a Demodoco/Omero del quale il protagonista si appresta a rivestire la funzione autorale e narrativa (chi narra, infatti, è sempre autore della narrazione e, spesso, anche del narrato); l'altro è indirizzato ai commensali. Prima di narrare, Ulisse si preoccupa di predisporre alla benevolenza i suoi ascoltatori. E così facendo dimostra ancora una volta la sua astuzia. I suoi complimenti ammirati, i suoi omaggi, sono infatti un tipico caso di captatio benevolentiae. Ulisse, insomma, suscita la benevolenza degli ascoltatori prima di raccontare la sua storia. Omero, una volta accantonato Demodoco, suo trasparente alter ego, non cessa per questo di dispensare segreti sull'arte della narrazione. LIBRO XIII "Disse così e immobili erano tutti, in silenzio, erano presi d'incanto nella sala ombrosa". I libri IX, X, XI e XII sono occupati dal racconto di Ulisse. Mentre questi parlava il sole è calato e le ombre si sono prolungate dentro la sala, ma gli ospiti non se ne sono accorti, 'presi d'incanto' restano immobili 'nella sala ombrosa'. Allora come oggi, il tema dell'incantamento è al centro delle poetiche della narrazione. Marco Baliani, ad esempio, parla dell'incantamento e dello stupore come degli effetti più profondi dell'atto narrativo: questi stati percettivi, afferma, sospendono la normalità del reale - perlopiù addomesticato dalle parole che, nominandolo, lo danno per noto - e schiudono la vista sull'identità originaria delle cose. SINTESI In età pretragica esisteva una cultura della performance narrativa che implicava nel cantore abilità improvvisatorie, descrittive, vocali e anche interpretative, poiché all'interno dei poemi, si alternavano personaggi che parlavano in prima persona dialogando come su una scena teatrale. Conclusa la fase creativa della grande epica orale - che si prolunga nell'epoca di Setiscoro - i rapsodi maturarono all'interno si abilità rispondenti alle segmentazioni formali ed espressive dei poemi omerici funzioni di carattere attoriale ed interpretativo. Nello Ione, Platone dice che i rapsodi devono sapere piangere e gridare comandi , e che la loro arte commuove fino alle lacrime la massa degli spettatori. E' quindi assai probabile che almeno alcuni elementi (le parti cantate del kommos ad esempio) e forse le impostazioni vocali degli attori abbiano fatto riferimento all'arte dei rapsodi. Oltre a ciò non va sottovalutato l'impatto esercitato dalla forma scritta dei poemi omerici, che consentì di penetrarne con lo studio artifici e tecniche di montaggio. Esaminando il libro VIII abbiamo visto come Omero si servisse della narrazione non solo per avvalorare l'identità e la credibilità dei personaggi narrati - interni al racconto - ma anche per rafforzare l'autorevolezza di coloro che narrano, i narratari. Demodoco, superando la trappola tesagli dall'astuto Ulisse, dimostra la natura divina del canto epico, proiettando questa qualità nel narratario che sta effettivamente raccontando la storia. Vale a dire su Omero stesso o sui rapsodi che - come Ione - ne avevano ereditato le mansioni. Possibile, allora, che l'arte di convalidare e quasi istituire la natura dei parlanti - siano questi personaggi narrati, personaggi/narratari o narratari in stato di presenza - non abbia influito sulla composizione dei personaggi tragici? Questi, in essenza, sono infatti parlanti la cui identità è fondata dalle parole che dicono.