La Metamorfosi nella drammaturgia shakespeariana Nell'Inghilterra del 1593 veniva dato alle stampe presso l'editore di Stratford upon Avon, Richard Field un poemetto intitolato Venus and Adonis. Di ispirazione classica come moltissimi dei lavori di quel periodo, lo scritto ricevette un discreto successo di pubblico (pare fosse molto letto e commentato nelle università inglesi del periodo) e le critiche dei lettori furono in generale positivo. Contenuto del poema altro non era, seppur con qualche irrilevante modifica, che l'episodio ovidiano dell'amore di Venere per il ritroso Adone. Di questo libello apparentemente privo di interesse per i lettori odierni non sarebbe arrivata alcuna notizia se, nonostante sul frontespizio non comparisse il nome di nessun autore, la dedica in prima pagina non fosse stata firmata da "di vostra signoria devotissimo servo, William Shakespeare". Nel 1593 nessun dramma di William Shakespeare era ancora stato pubblicato a suo nome era stato ancora pubblicato a suo nome e quello che sarebbe diventato il più celebre dei drammaturghi inglesi altro non era che uno dei tanti attori-scrittori dal nome sconosciuto che avevano bisogno di un'attività alternativa per far quadrare la cassa nel periodo di chiusura dei teatri. Non ci appare così insolito che sin dalla dedica il Nostro sembri prendere le distanze dalla sua carriera di drammaturgo e che l'epigrafe - non a caso proprio da Ovidio - inizi con la frase "Vilia miretur vulgus" (che siano gli ingegni spregevoli ad ammirare le cose vili), come a sottolineare una vocazione poetica ben distaccata da quella che era l'altra carriera dell'autore, di cui non si fa alcuna menzione. Venere e Adone conferì a Shakespeare, durante la sua vita, molta più fama di tutte le opere teatrali che lo avrebbero consacrato alla storia. Ma a cosa fu dovuta la scelta del tema ovidiano? Prevalentemente alla moda. Possiamo affermare con quasi assoluta certezza - nonostante le notizie biografiche sull'autore siano praticamente inesistenti - che Shakespeare lesse Ovidio: l'autore era uno dei più gettonati nelle scuole elisabettiane e di certo la King's New School (che il giovane William probabilmente frequentò in quanto figlio di un consigliere di Stratford) non faceva eccezione. Nella grammar school gli studenti apprendevano la grammatica latina secondo le regole della repetitio e dell'imitatio , nei primi otto mesi lo studente imparava le otto parti del discorso latino, prima di entrare in contatto con il testo con cui tutti gli scolari del tempo, prima o poi, dovevano misurarsi: la "Short introduction of Grammar" di William Lilly. Lilly spiegava semplici espressioni grammaticali e poi le illustrava con esempi da celebri autori latini. I bambini dovevano imitare questi modelli scrivendo semplici frasi latine. A confermare la tesi secondo la quale lo stesso Shakespeare si sarebbe formato sul Lilly, va segnalato che, secondo molti studiosi, la punteggiatura del Nostro derivi da quella del Lilly, così come la grafia dei nomi classici. Al secondo anno i ragazzi si misuravano con frasi più complesse che spesso dovevano mandare a memoria. Probabilmente il testo di riferimento del giovane William, per questa fase dei suoi studi, fu il Sententiae Pueriles (nelle opere del drammaturgo sarebbero stati trovati più di duecento riferimenti a questo libro). Imitazione e invenzione erano al tempo due concetti strettamente legati: come tutti i bambini del suo tempo, Shakespeare imparò a inventare brevi testi latini mescolando e assemblando secondo il proprio arbitrio frasi fatte e aforismi mandati a memoria precedentemente e questa lezione non fu mai dimenticata dall'autore. In un'epoca in cui prendere spunto (se non addirittura interi passi) da testi altrui non era considerato plagio né tanto meno mancanza di originalità, il materiale classico costituiva una delle maggiori fonti di poeti e scrittori. In questo clima di grande proliferare di testi, non deve perciò stupire il fatto che l'argomento scelto dal giovane Shakespeare per il suo esordio letterario come poeta fosse derivato da una delle opere della latinità; dopotutto c'era forse un modo migliore per mettere a tacere le voci invidiose che lo accusavano di conoscere "small latin and less greek". Tito Andronico Parlando di debiti shakespeariani ad Ovidio è impossibile prescindere dal Tito Andronico. Ricchissima di riferimenti alle Metamorfosi sia da un punto di vista formale che contenutistico, la tragedia shakespeariana si va a inserire tra i lavori più insoliti e fuori dalle righe del drammaturgo. Composto probabilmente tra il 1589 e il 1593, il Tito Andronico mette in scena le reciproche vendette tra il generale Tito Andronico e la regina dei goti Tamora, sposa dell'imperatore romano Saturnino. Tra le fonti del Tito è necessario citare The Spanish Tragedy di Thomas Kyd, da cui il giovane William avrebbe mutuato il gusto per le storie di vendetta e per le scene sanguinose e il Tieste di Seneca, che avrebbe fornito il modello per il banchetto cannibalesco. A Ovidio Shakespeare ispirò il personaggio e la storia di Lavinia, chiaro calco della figura di Philomela, protagonista di una delle più note metamorfosi Ovidiane. Come Philomela, Lavinia viene stuprata e privata della lingua. L'entrata in scena di un personaggio femminile, vittima di stupro e menomata (a Lavinia vengono mozzate anche le due mani) doveva richiamare immediatamente alla mente degli spettatori più colti il noto episodio di Ovidio. Nel sesto libro delle Metamorfosi si narra infatti la storia di Philomela, violentata dal marito della sorella, Tereo. Compiuta la violenza, Tereo mozza la lingua della fanciulla e la imprigiona in una capanna nel bosco per impedire che riveli cosa è accaduto alla sorella Procne. Philomela ricama così una lunga tela in cui racconta la sua sventura e fa in modo che Procne ne venga in possesso. Liberata la sorella, Procne medita una tremenda vendetta contro il marito. Ucciso il loro unico figlio, Iti, lo cucina e ne imbandisce le carni a un inconsapevole Tereo che si trova a nutrirsi delle carni del suo stesso figlio. Altri due sono qui gli elementi ripresi da Shakespeare. In primo luogo, anche Lavinia, impossibilitata a parlare, è costretta ad usare come unico mezzo di comunicazione quello della scrittura anche se in questo caso la povera fanciulla scriverà sulla sabbia i nomi dei suoi aguzzini usando i moncherini; è da notare che anche il motivo dello scrivere sulla sabbia (e non su tela) è Ovidiano: Io, nel primo libro delle Metamorfosi, dopo essere stata trasformata da Zeus in mucca cercherà di farsi riconoscere dal padre proprio scrivendo con lo zoccolo (quindi con un arto privo di dita) il proprio nome. In seconda istanza, torna il motivo del banchetto cannibale in cui il genitore ignaro si nutre della propria progenie. La regina Tamara, infatti, verrà invitata da Tito a mangiare le carni dei suoi figli Demetrio e Chirone, artefici dello stupro di Lavinia e verrà a conoscenza del terribile atto contro natura compiuto soltanto quando il danno sarà irrimediabile. La molto tragica storia di Piramo e Tisbe Tra le commedie, quella più ricca di riferimenti alle Metamorfosi è sicuramente Sogno di una notte di mezz'estate, scritta probabilmente intorno al 1595. Al di là dell'ambientazione nell'Atene di Teseo e Ippolita e dell'effettivo episodio di metamorfosi che ha luogo all'interno del play (la cui fonte è però da andare a ricercare probabilmente in Apuleio - L'asino d'oro), è centrale per la nostra ricerca dell'episodio così detto "play within the play", ossia il momento in cui la compagnia di attori dilettanti mette in scena la "Molto tragica storia di Piramo e Tisbe" in occasione del triplice matrimonio dei protagonisti. L'episodio, tratto pari pari dal Metamorphoseon senza varianti di trama o modifiche di sorta, viene presentato dall'autore elisabettiano con toni diametralmente opposti rispetto a quelli usati dal poeta latino. Se la storia dei due infelici amanti raggiunge altissimi toni lirici in Ovidio, Shakespeare ne fa un pretesto per mettere in scena l'incapacità degli attori non professionisti di rappresentare la tragedia, forzando la mano sul ribaltamento dei toni tragici che irrimediabilmente conduce a una farsa ridicola e grottesca. Per enfatizzare la maldestìa di Bottom e colleghi, Shakespeare fa uso di tutte le sue capacità di poeta, ricorrendo ad un registro linguistico alto ma imperfetto, colmo delle rime scontate e delle forme ridondanti tipiche dei versi mal scritti, pur ricalcando alla perfezione i contenuti e persino i dialoghi dei due amanti. Si prenda per esempio il seguente passo del quarto libro delle Metamorfosi: [...] Spesso, immobili, Tisbe da una parte, Pìramo dall'altra, dopo aver spiato a vicenda i propri aneliti "Muro invidioso", dicevano, "perché ti frapponi al nostro amore? Quanto ti costerebbe lasciarsi unire con tutto il corpo o, se questo è troppo, aprirti perché potessimo baciarci? Non siamo degli ingrati sappiamo di doverti già molto, se a orecchie amiche permetti che giungano le nostre voci". Pronunciate invano, l'uno dall'altra divisi, queste parole, a notte si salutarono e ognuno alla sua parte di muro impresse baci senza speranza che s'incontrassero.