Prospero, nella seconda scena del III atto de La Tempesta (1611-1612), pronuncia le seguenti parole, descrivendo la sua isola: Non abbiate paura. L'isola è piena di rumori, suoni e dolci arie che danno piacere e non fanno male; a volte mille strumenti tintinnanti mi ronzano negli orecchi; e a volte voci che anche se mi sono destato da un lungo sonno, mi fanno dormire di nuovo; e allora, nel sogno, mi sembra che le nubi si aprano e mi mostrino ricchezze pronte a piombarmi addosso, tanto che quando mi risveglio piango e voglio sognare ancora. Se La Tempesta è il testamento morale di Shakespeare e Prospero il suo alter-ego, l'isola è forse il teatro: un luogo evocativo, in cui rumori naturali, suoni e bisbigli creano atmosfere da sogno. Tra il 1576 e il 1660, a Londra, aprono e vengono chiusi nove teatri pubblici: The Theater (1576) - costruito da James Burbage, sul suolo del vecchio Red Lion -, The Curtain (1577), Newington Butts (1579?), The Rose (1587), The Swan (1594) che ospitavano solo rappresentazioni teatrali. Nessuna delle nove costruzioni è sopravvissuta oltre il 1660 e, soprattutto in seguito alla drastica diminuzione della popolarità del teatro successiva al 1642, anno in cui i puritani ottennero l'applicazione di un decreto che sanciva l'interdizione e la chiusura dei luoghi di spettacolo. Per la costruzione degli edifici, quindi, si deve ricorrere a un'eterogenea serie di documenti: sono conservati alcuni contratti di edificazioni (del Fortune e dell'Hope), alcuni atti ufficiali (soprattutto di scrittura degli attori), alcune testimonianze dell'epoca. Henry Cosse, ad esempio, nel 1603 si pronunciò nei seguenti termini, parlando del mondo dello spettacolo e dei teatri stessi: Ora i frequentatori abituali sono per la maggior parte la gente più sozza del paese, buona per il furto, lo spergiuro, la truffa e qualsivoglia bricconata, vera e propria schiuma, canaglia e rifiuto del popolo, ladri, tagliaborse, fannulloni, manigoldi; in breve, una generazione sporca, un semenzaio di vipere: non dovrà dunque esservi una buona regola, là dove si trova un tal covo di creature infernali? Poiché una commedia è come la cloaca di una città, dove scorre ogni immondizia; o la bile del corpo, che attira su di sé tutti gli umori maligni. Le fonti alle quali si ricorre più frequentemente per la ricostruzione della struttura degli edifici teatrali sono alcuni documenti iconografici e, soprattutto, i testi drammatici all'interno dei quali si rintracciano preziose informazioni sull'articolazione spaziale: le voci degli attori del teatro elisabettiano e le parole di cui si facevano portatrici sono i principali strumenti drammaturgici attraverso cui venivano create le ambientazioni delle opere e le scenografie assenti. La prima tipologia di documenti si può ulteriormente suddividere in due categorie. Sono giunte fino a noi immagini che rappresentano gli esterni dei teatri: due vedute di Londra, una del 1616 di J.C. Visscher e una del 1647 di Wenceslas Hollar, collocano gli edifici a pianta ottagonale sulla riva meridionale del Tamigi, lontani dalla City (cuore economico, religioso, politico di Londra), un una zona meno assoggettata all'autorità comunale. E' stata ritrovata, invece, un'unica testimonianza iconografica degli interni dei teatri elisabettiani: Joannes De Witt, un viaggiatore olandese di passaggio a Londra nel 1596, lascia un suo schizzo dell'interno dello Swan Theater, copiato a penna da Aarend Van Buchell nel 1888 e rinvenuto presso la Biblioteca dell'Università di Utrecht. Non è un caso che sia proprio un mercante olandese, e non un cittadino inglese, giunto a Londra nell'epoca della fioritura di questi teatri e incuriosito da questa soluzione spettacolare, a tracciarne un disegno. Il fatto che la vita di Shakespeare non sia fortemente documentata trova le sue ragioni nella natura professionale, extra-accademica, commerciale del suo teatro, per cui la scarsità dei documenti biografici sul drammaturgo non è assolutamente un'eccezione, ma dipende piuttosto dal mondo dei teatri professionali che erano nel pieno della loro formulazione e la cui esistenza non derivava da tradizioni profonde. Abbiamo, ad esempio, una molteplicità di testimonianze di Palladio e Scamozzi intorno al Teatro Olimpico di Vicenza, costruito in quegli stessi anni, perché indissolubilmente legato alla cultura accademica del tempo. L'elemento essenziale di questo teatro a pianta circolare o ottagonale, in legno e scoperto è il cosiddetto upron-stage, il palcoscenico aggettante, in parte coperto da una tettoia (heavens) e dotato di una (dibattutissima) parte interna, l'inner stage, una sorta di nicchia centrale nascosta da un sipario allo sguardo dello spettatore, uno spazio retro-scenico analogo a quello delle tragedie greche. Gli attori recitavano circondati da un fittissimo pubblico (The Globe conteneva fino a tremila spettatori) e l'azione teatrale si svolgeva principalmente su questo tavolato rialzato. Non c'era la scenografia, ma un fondo scena (rear-wall) con due entrate per l'ingresso e l'uscita degli attori, comunicanti con i camerini (tiring-house). Quest'ultimo dato risulta fondamentale per ricostruire l'influsso esercitato dall'articolazione spaziale sulla scrittura drammatica: infatti, escludendo scenografie - che richiederebbero una profondità maggiore rispetto a quella garantita dall'edificio elisabettiano - e offrendo una spazialità esclusivamente praticabile, si configura una relazionalità tra i personaggi determinata dal solo posizionamento degli attori nello spazio. Non c'erano complesse macchina spettacolari, ma i palchi erano attrezzati con botole per garantire lo sprofondamento dei personaggi (dopo il palesamento dello spettro del padre di Amleto, l'attore sprofondava letteralmente nel palcoscenico), oppure c'erano degli argani all'interno della tettoia per consentire i voli (come nel caso de Il sogno di una donne di mezza estate). La gallery, o upper stage, costituiva la balconata sovrastante e serviva per gli assedi o come balcone o finestra. I costumi rappresentavano un elemento spettacolare fondamentale. I rari viaggiatori, nessun inglese, che ne facciano menzione sono stupefatti dalla loro ricchezza. Per consuetudine, i nobiluomini dell'età elisabettiana erano propensi a lasciare in eredità i propri abiti ai propri servitori di fiducia ma veniva impedito che la persona di grado servile si vestisse con gli abiti appartenenti ad un individuo di classe superiore. Questa situazione legata alle consuetudini sociali faceva sì che ne beneficiassero gli attori che, con pochissimo denaro, potevano acquistare degli abiti di alta nobiltà, con tessuti magnifici - velluti, sete orientali, broccati, porpora, tessitura d'oro. I documenti appena citati sono essenziali per capire la struttura performativa sulla quale si venne a modellare l'invenzione shakespeariana. Il drammaturgo inglese, infatti, cala le sue competenze di attore-autore e la sua invenzione drammatica all'interno del modello performativo degli attori professionisti della prima generazione elisabettiana. Per queste ragioni un ultimo e fondamentale documento utile a ricostruire l'articolazione spaziale dell'edificio teatrale è rappresentato proprio dai testi drammatici. Premettendo che non erano presenti scenografie né fondo-scena e che lo spazio era interamente praticabile, nei testi shakespeariani si rintraccia una serie di tipologie di informazioni indispensabili per immaginare l'articolazione della scena e, nello specifico, ciò che il pubblico contemporaneo vedeva e, soprattutto, era portato ad immaginare. Numerosi espedienti verbali localizzano l'azione in luoghi e tempi precisi. In questi casi, la scenografia verbale favorisce la creazione di ambienti scenici nell'immaginazione dello spettatore o rimanda a spazi e ambienti extra-scenici che lo spettatore conosce: i personaggi possono dire dove sono o, uscendo, dove vanno (si pensi al coro iniziale di Romeo e Giulietta, "Nella bella Verona, dove poniamo la nostra scena"); alcuni personaggi vengono associati a delle città specifiche (nell'Antonio e Cleopatra, 1606-1607, la presenza di Antonio in scena rimanda a Roma, quella di Cleopatra all'Egitto). Più articolate risultano, invece, le caratterizzazioni degli sfondi, dei contesti, delle atmosfere in cui l'azione si sviluppa. In questo caso, infatti, si possono rintracciare dialoghi in cui i luoghi "non sono", ma "si fingono": si tratta di ambienti immaginari simulati. La quarta scena del IV atto del Re Lear, 1605-1606, si fa esempio lampante di questa tipologia di simulazione spaziale. Il giovane Edgar, sotto mentite spoglie, fa credere al padre, il cieco ed aspirante suicida Gloucester che non lo riconosce, di trovarsi in cime ad un precipizio. Il pubblico, complice dello stesso Edgar, sa di essere portato a immaginare uno spazio che non c'è: EDGAR: Avanti, signore; eccoci giunti. Fermo dove siete. Che spavento, che stordimento si prova a gettare lo sguardo fino laggiù in fondo! I corvi e le cornacchie che svolazzano a mezz'aria non sembrano più grossi di scarafaggi. A mezza costa c'è uno aggrappato a raccogliere il finocchio marino...brutto mestiere! Shakespeare fa dipingere ad Edgar un quadro estremamente particolareggiato, fatto di rumori e dettagli, mentre orchestra la doppia simulazione spaziale di cui questo passo si fa esemplificazione massima: Gloucester, inconsapevole, vede con gli occhi di Edgar uno spazio che non esiste se non nelle parole che il figlio pronuncia con la finalità, esplicita per il pubblico, di salvare il padre dal suicidio. A vederlo non sembra più grande della sua testa. I pescatori, lungo la spiaggia, paiono tanti topi; e quel grande vascello laggiù sembra la sua scialuppa, e la sua scialuppa, una boa appena percettibile. Tutta la descrizione procede ricorrendo ad espressioni che restituiscono il senso dell'altezza, della lontananza, della verticalità. Il brontolio della marea che passa e ripassa sugli innumerevoli ciottoli inerti non riesce ad arrivare fin quassù. Non guardo giù per paura che mi giri la testa e che, con la vista annebbiata, finisca per cascare a capofitto. GLOUCESTER: Fammi venire dove sei tu. EDGAR: Datemi la mano. Ora siete a un passo dall'orlo del baratro. Per tutto quello che c'è sotto la luna, io non mi azzarderei nemmeno a fare un salto sul punto in cui mi trovo. La descrizione del giovane è tanto suggestiva e dettagliata da convincere il padre, confuso dalla cecità, dal senso di colpa provato nei confronti del suo re e dal desiderio di morire, dell'esistenza reale dell'altura. Gloucester crede di buttarsi e, dallo spavento, sviene. Quando si riprenderà, Edgar proseguirà nella sua simulazione, ancora una volta terapeutica, dicendogli che è effettivamente caduto e, per grazia divina, si è salvato. L'ultima categoria di informazioni presenti nei testi drammatici riguarda le articolazioni spaziali determinate dalla disposizione degli attori nello spazio e dalle interazioni che si insinuano tra i personaggi. Tale disposizione risulta drammaturgicamente determinata: conoscendo lo spazio fisso in cui si articolerà l'azione, il drammaturgo vincola l'azione stessa mettendo a frutto i suoi elementi praticabili, in una sorta di messa in dramma dell'articolazione spaziale. Si può tentare, a questo proposito, un felice parallelismo tra la prima scena del II atto de L'Ebreo di Malta (1589) di Cristopher Marlowe e la celeberrima scena del balcone di Romeo e Giulietta. L'ebreo di Malta, Barabba, ha nascosto il suo tesoro in un convento e tenta di recuperarlo obbligando la figlia, Abigail, a farsi monaca. Il personaggio, solo, entra in scena con un lume - indicando, quindi, un'ambientazione notturna -, parla a sé stesso e descrive le sue difficoltà nel recuperare il tesoro nascosto. BARABBA: Simile all'uccello apportatore di tristi presagi, al corvo il cui becco giunge rauco all'orecchio dell'inferno, quasi funebre rintocco, l'annuncio del trapasso ormai vicino, mentre le nere ali, ondeggiando, spargono il contagio nell'oscura notte silente, simile a lui, si aggira affannoso, crucciato, torturato il misero Barabba, invocando fatali maledizioni sul capo de' cristiani. Gli incerti piaceri, che il fugace trascorrere dei giorni porta con sé, si sono involati, lasciandomi in preda alla disperazione: delle ricchezze di un tempo, null'altro mi rimane ormai che il ricordo, come al soldato la cicatrice, unico e solo conforto alla mutilazione. O Tu, che con una colonna di fuoco guidasti i figli d'Israele fra oscurità tenebrose, illumina ora la prole di Abramo, guida, stanotte, la mano di Abigail; o, se così non dev'essere, fa che da oggi si tramuti il giorno in notte eterna! Non potrà sui miei vigili occhi posarsi il sonno, non potrà calma alcuna imporsi alla mia mente turbata, sinché non avrò la risposta dalla mia Abigail. Un carattere tipico delle drammaturgie degli ingegni universitari è una certa esibizione della cultura di cui sono i depositari. Si fa, infatti, della cultura un oggetto di esibizione affascinante, non per quanto ha di rigoroso, coerente, filologico, ma per quanto ha di meraviglioso, di lussuoso, di esorbitante rispetto al linguaggio quotidiano. La cultura diventa un super-linguaggio che assorbe elementi dalla letteratura dei testi sacri, dagli autori latini, dalla tragedia senechiana e riversa tutto questo in soluzioni affascinanti, lussuose, terribili. Il dislivello culturale tra drammaturghi e pubblico non è fonte di un teatro didattico, formativo, pedagogico, ma di meraviglie linguistiche, di immagini straordinarie, di personaggi fuori misura, di metafore di particolare ricchezza. ABIGAIL: Sono riuscita infine a cogliere il momento in cui poter frugare dietro l'asse indicatomi da mio padre, e proprio qui, non veduta da alcuno, ho trovato l'oro, le perle, i gioielli ch'egli vi aveva nascosti: eccoli! La figlia entra in scena, dice di aver trovato il tesoro paterno e lo mostra al pubblico. Nella battuta successiva Barabba continua il suo pensiero senza vederla. BARABBA: Mi tornano alla mente ora le parole di quelle vecchie che a' miei tempi belli, mi raccontavano le favole nelle sere d'inverno, e narravano di spiriti e fantasmi che di notte s'aggirano lienvi ne' luoghi ove è stato nascosto un tesoro. Oggi mi par proprio di essere uno di quelli: poiché qui, sinch'io viva, vivrà l'unica speranza dell'anima mia, e qui, quand'io muoia, andrà vagando il mio spirito. Il personaggio, si paragona a un fantasma che, senza pace, vaga nei pressi del tesoro. Il tesoro stesso, come la figlia Abigail, sono già visibili al pubblico, ma sull'upper stage. Tra i due personaggi, quindi, c'è un dislivello che giustifica il fatto che non si vedano mentre il pubblico vede entrambi. ABIGAIL: Volesse mai la sorte favorire mio padre tanto almeno ch'egli si trovasse vicino a questo luogo fortunato! A pensarci bene, però, tanto fortunato non è...Ma aveva pur detto mio padre, quando ci separammo, che sarebbe tornato da me soltanto a giorno fatto! Dalle parole di Abigail deduciamo due informazioni: è notte - come ci aveva mostrato il lume di Barabba in apertura - e la giovane non vede il padre sotto di lei - come il pubblico elisabettiano aveva già colto. E, dunque, ordina tu, Sonno cortese, ordina tu a Morfeo che al padre mio - ovunque egli ora riposi - sia dato di sognare un sogno tutto d'oro; e poi, destatosi d'un tratto, possa egli venire a raccogliere qui il tesoro ch'io ho ritrovato. Non solo i personaggi sono su due piani spaziali differenti , ma anche su due piani di carattere differenti: Barabba si pensa come un fantasma che sparge germi malefici nella notte in attesa del suo tesoro, senza far minimamente testo alla figlia come fonte di felicità; la figlia, al contrario, invoca per il padre un sogno d'oro. BARABBA: Bueno para todos mi ganado no era [La mia ricchezza non era buona per tutti, vecchio detto spagnolo]. Perché rimango qui seduto così tristemente? Tanto vale andar innanzi...Ma, ferma! Quale stella vedo lì brillare lassù ad oriente? E' la stella polare della mia vita, s'ella è Abigail. Chi è là? Citare la stella polare fa pensare alla battuta di Romeo sotto il balcone di Giulietta: la conformazione spaziale è la stessa, le implicazioni metaforiche sono diverse. ABIGAIL: Chi sei? BARABBA: Zitta. Abigail, son io. ABIGAIL: Se davvero sei tu, eccoti, o padre mio, la tua felicità. BARABBA: Li hai, dunque? ABIGAIL: Ecco a te. Le hai? E ve n'è ancora e ancora e ancora. La seconda battuta di Abigail, oltre a sottolineare ancora una volta, l'estrema avidità del padre, indica che il tesoro viene gettato dall'upper stage. BARABBA: O figlia mia! Mio oro, mia fortuna, mia felicità! Sostegno e forza dell'animo mio, morte del mio nemico! Benvenuto sia il principio, benvenuta la fonte della mia immensa gioia! O Abigail, Abigail, potessi avere qui anche te! Allora, sì, sarebbe appagato ogni mio desiderio! Oh! Ma troverò modo di farti uscire di qui...O figlia! O oro! O splendore! O mia felicità! Anche nel momento in cui l'ebreo di Malta spende parole gentili nei confronti della figlia, il termine di paragone usato per quantificare la sua felicità e il suo amore per lei continua ad essere il denaro. La stessa dislocazione spaziale che troviamo in questo dialogo tra un padre ed una figlia, il primo collocato in basso, la seconda in alto, si ritrova nella seconda scena del secondo atto di Romeo e Giulietta. Qui, però, l'articolazione spaziale fissa dell'edificio elisabettiano non vincola solo la doppia collocazione dei personaggi, ma viene resa da Shakespeare metaforicamente funzionale alla descrizione della relazione d'amore tra i due: i continui riferimenti al buio e alla luce, alle bellezze della natura, all'alto e al basso, alle stelle e al sole, nelle parole dei due protagonisti conferiscono allo spazio praticato un significato diverso e più articolato. Romeo ha appena scavalcato il muro che gli permetterà di arrivare sotto il balcone dell'amata, muro che, evidentemente, rappresenta un'ulteriore creazione della scenografia verbale dal momento che non è materialmente visibile all'occhio dello spettatore, ma certamente presente nel suo immaginario perché i personaggi (Mercuzio, Romeo, Benvolio), nelle scene precedenti, ne hanno descritto i caratteri e hanno ripetutamente sottolineato quanto ardua sia la volontà di Romeo di introdursi nella dimora dei Capuleti. Giulietta appare da una finestra (l'elemento della finestra è specificato dallo stesso Shakespeare oltre che dai suoi trascrittori postumi). Quindi, Romeo: Ma quale luce apre l'ombra da quel balcone? Ecco l'oriente e Giulietta è il sole...Alzati, dunque, o vivo sole e spegni la luna già fioca, pallida di pena, che ha invidia di te perché sei bella più di lei, tu che la servi. E se ha invidia di te, lasciala sola. Il suo manto vestale ha già un colore verde di palude, e più nessuna vergine lo porta. Gettalo via! Oh, è la mia donna, è il mio amore! Ma non lo sa! Parla e non dice parola (...) E' chiaro che, in questo primo soliloquio d'amore, le parole di Romeo non dipingono nessuna scenografia verbale esplicita, ma non si può negare che contribuiscano alla creazione di un'atmosfera notturna incantata che verrà richiamata continuamente durante il dialogo. Inoltre, già su queste poche righe si possono elaborare una serie di congetture: i due personaggi, come nel caso di Barabba ed Abigail inizialmente non si vedono, o, meglio, Romeo vede Giulietta, ma non viceversa, mentre il pubblico ha una visione limpida di entrambi. Inoltre, Giulietta non è semplicemente affacciata al balcone, ma è su un altro piano. La disposizione dei due personaggi su livelli diversi non si fa solo espediente per l'articolazione della relazione spaziale tra i due, ma già spia e metafora del loro rapporto amoroso: Romeo identifica Giulietta con una figura celestiale - il sole, la stella, una luce che cala dall'alto - prefigurando la dedizione e la venerazione che le riserverà. GIULIETTA: Ahimè! ROMEO: Ecco, parla. Oh, parla ancora, angelo splendente! Tu, in questa notte, appari a me, dall'alto (...) A conferma della disposizione spaziale, lo stesso Romeo descrive la loro collocazione con l'espressione "o'er my head", letteralmente "sopra la mia testa": è probabile che l'attore si nascondesse, prima di svelarsi, sulla soglia dell'inner stage. Segue, quindi, l'intimo soliloquio di Giulietta che si crede sola: GIULIETTA: Oh Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo? Rinnega dunque tuo padre e rifiuta quel nome, e se non vuoi, legati al mio amore e più non sarò una Capuleti. ROMEO: Devo rispondere o ascoltare ancora? Romeo bisbiglia al pubblico, innescando una triangolazione comunicativa che coinvolge direttamente lo spettatore. GIULIETTA: Solo il tuo nome è mio nemico, tu sei tu, anche se non fossi uno dei Montecchi. Cosa vuol dire Montecchi? Né mano, non piede, né braccio, né viso, nulla di ciò che forma un corpo. Prendi un altro nome! Che c'è nel nome? Quella che chiamiamo rosa, anche con un altro nome avrebbe il suo profumo. Anche Romeo, senza più il suo nome sarebbe caro , com'è, e così perfetto. Rinuncia al tuo nome Romeo, e per il nome, che non è parte di te, prendi me stessa. ROMEO: Ti prendo sulla parola, chiamami solo amore, e avrò un nuovo battesimo; ecco non mi chiamo più Romeo. GIULIETTA: Chi sei tu che difeso dall'ombra della notte entri nel mio chiuso pensiero? Allo svelarsi di Romeo, la dinamica relazionale diventa evidente: il piano sopraelevato non è un semplice balcone, ma il pensiero stesso di Giulietta e l'ombra che nasconde Romeo, nel piano basso, rappresenta la notte incantata complice del loro incontro. Durante il dialogo si ritroveranno un'ulteriore allusione al muro (Giulietta: "Alti sono i muri del giardino e aspri da scalare") e varie allusioni alla notte (Romeo: "Il manto della notte mi nasconde"; Giulietta: "La maschera della notte mi nasconde il viso"). Finché, come è noto, non si sentirà la voce della nutrice che, dall'interno, chiama Giulietta svelando l'essenza retro-scenica dell'inner gate. Questo veloce parallelismo tra l'opera di Marlowe e una delle più famose tragedie shakespeariane restituisce un quadro chiaro della triplice funzione delle scenografie verbali nel teatro elisabettiano. Esse si rivelano, infatti: un bacino di informazioni sugli spazi e gli ambienti extra scenici; la sede della creazione di ambienti immaginari simulati; gli espedienti che animano lo spazio scenico materialmente vuoto trasformandolo in ambientazioni dettagliate ed evocative nella mente e nell'immaginario dello spettatore. Il discorso fatto a proposito della diversa articolazione spaziabile rintracciabile nei testi dei drammaturghi elisabettiani e in quelli di Shakespeare, può essere traslato anche sul piano dell'articolazione inter-personale che i drammaturghi stessi instauravano con il proprio pubblico. Quanto detto in precedenza su L'ebreo di Malta, testo esplicitamente antisemita - già a partire dal nome del protagonista -, va corredato da un fondamentale dato contestuale: lo stesso pubblico elisabettiano era dichiaratamente antisemita. La scelta di Marlowe, dunque, di costruire un personaggio malvagio, privo di una coscienza, avido al punto di sacrificare la figlia per salvaguardare i suoi averi risulta essere in piena linea con il gusto del tempo: il male viene collocato in scena perché è un forte orientamento delle passioni popolari ed aiuta il drammaturgo ad ingraziarsi il suo pubblico. Sempre nel II atto dell'opera, Barabba descrive sé stesso nei seguenti termini: Quanto a me, io m'aggiro di notte sotto le mura, là dove tanti infermi gemono, e li uccido; spesso vado attorno ad avvelenare i pozzi; talvolta anche, per dimostrare quanto bene io voglia ai ladri criminali, sono ben contento di privarmi di un po' del mio denaro, pur di vederli - mentr'io passeggio sulla mia loggia - passar di lì prigionieri, in catene. Quand'ero giovane, studiai medicina e incominciai a praticarla in Italia; là resi ricchi i preti con funerali su funerali, e per opera mia le mani de' sagrestani eran sempre in moto a scavar tombe e a sonar campane a morto. Dopo di ciò fui ingegnere e nella guerra tra Francia e Germania, col pretesto d'aiutar Carlo V, feci strage d'amici e nemici con le mie invenzioni. Poi fui usuraio; e a furia di estorsioni , di truffe, di confische, facendo il sensale, accettando pegni in un anno popolai di falliti le prigioni e di piccoli orfani gli ospizi. Ogni mese qualcuno impazziva per causa mia; v'era persino chi s'impiccava pel dolore, appuntandosi al petto un gran cartiglio ove stava scritto com'io l'avessi torturato con l'esigere interessi. Ma guarda come, dal rendere felici tutti costoro, è venuta a me la felicità! Oggi son tanto ricco che potrei comprare la città intiera. E tu, come hai trascorso la vita? Dimmelo. Anche Shakespeare, nel 1596-1597, mette in scena un ebreo e lo caratterizza facendo ricorso ai medesimi pregiudizi presenti nell'opera di Marlowe: Shylock, il mercante di Venezia, è malvagio , avido e, ancor più di Barabba, subdolo (al punto da pretendere una libra di carne umana da un suo creditore in caso di mancata restituzione del prestito). Nel monologo che segue, Shylock motiva il suo agire e la sua disumana richiesta: SALERIO: Ma son sicuro che se non potrà farvi fronte, tu non ti prenderai la sua carne...a che servirebbe? SHYLOCK: a farne esca pei pesci. Se non nutre nient'altro, nutrirà la mia vendetta. Il dramma di vendetta è uno dei generi più popolari al tempo di Shakespeare. La dialettica offesa-vendetta, infatti, che avviava la catena delle azioni, incontrava il favore del pubblico e ne facilitava il rapporto di empatia con quanto avveniva in scena. Nel caso di Shakespeare e de Il Mercante di Venezia in particolare, però, la vendetta diventa una caratteristica fondamentale del personaggio, più che della trama, e il personaggio stesso si fa trasposizione drammatica di persona, non più semplice ruolo funzionale allo svolgimento dell'intreccio. Egli mi ha vituperato, mi ha impedito di guadagnar mezzo milione, ha riso delle mie perdite, si è burlato dei miei guadagni, ha insultato il mio popolo, osteggiato i miei affari, ha raffreddato i miei amici, riscaldato i miei nemici. E per quale motivo? Sono un ebreo. Ma non ha occhi un ebreo? Non ha un ebreo mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni? Non si nutre degli stessi cibi, non è ferito dalle stesse armi, non è soggetto alle stesse malattie, non si cura con gli stessi rimedi, non è riscaldato e agghiacciato dallo stesso inverno e dalla stessa estate come lo è un cristiano? Se ci pungete non facciamo sangue? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci oltraggiate, non dobbiamo vendicarci? Se siamo simili a voi in tutto il rimanente, vogliamo rassomigliarvi anche in questo. Se un cristiano è oltraggiato da un ebreo, qual è la sua mansuetudine? La vendetta! Se un ebreo è oltraggiato da un cristiano, quale può essere , sull'esempio cristiano, la sua tolleranza? Ebbene, la vendetta! La malvagità che mi insegnate la metterò in opera, e sarà difficile che io non abbia a superare i maestri. Shylock, come si è detto, non è meno malvagio di Barabba, né si adatta meno allo spirito antisemita del pubblico, quindi, la drammaturgia continua ad essere la risultante di un rapporto previsto con lo spettatore contemporaneo, il suo gusto, un certo immaginario collettivo, come nel caso delle drammaturgie pre-shakespeariane. Quindi è opportuno chiedersi quali siano le ragioni dell'immortalità delle opere shakespeariane e come esse abbiano potuto conservare un valore tanto paradigmatico per il teatro occidentale, anche al di là del loro contesto sociale di appartenenza. Come nel caso dello sfruttamento metaforico dell'articolazione spaziale fissa, anche nel caso dei personaggi, il drammaturgo dilata le potenzialità del testo che diventa sede di una parola polifunzionale: essa indica azioni, spazi, tempi, paesaggi vari - reali o simulati - e consente anche l'avvicinamento del personaggio alla concretezza dell'individuo. Non bisogna sottovalutare, a questo proposito, il potere emozionale delle parole composte dal drammaturgo-attore che, proprio in quanto attore, sapeva bene quale fosse il gusto del pubblico ,a anche cosa occorresse all'interprete per mettere in connessione le azioni e l'identità del personaggio. Per queste ragioni, Shakespeare scrive le incontestabili argomentazioni a sostegno dell'uguaglianza tra ebrei e cristiani sullo stesso corpo del personaggio che è quello dell'attore. La scelta di alludere alla struttura corporea - mani, membra, sensi -, alle azioni che hanno un effetto su di essa - il nutrirsi, l'essere ferito, l'ammalarsi, l'essere curato, il patire il caldo o il freddo -, fino ad arrivare alle sue espressioni estreme - sanguinare, ridere, morire, vendicarsi (la vendetta viene presentata come una reazione istintiva, inevitabile per l'animale uomo) -, si fonda in quell'elemento pregresso organico, quindi eminentemente performativo, che è il corpo materiale dell'attore. Shylock porta ragioni complesse in difesa non solo della sua persona, ma di un'intera categoria e diventa un'identità umana agente all'interno del dramma. Mentre Barabba narrava la successione delle azioni malvagie compiute nella sua vita, qui il monologo del mercante è una rappresentazione di pensiero che mette in scena un conflitto tra motivazioni forti. Tali motivazioni, portate da un personaggio-persona, e non più da un semplice ruolo, da un lato, dilatano le potenzialità della parola drammatica - che incontra l'empatia del pubblico e la amplifica grazie al meccanismo emozionale che innesca facendo del personaggio un individuo -, dall'altro permette all'opera shakespeariana di suscitare immagini universali, valide per ogni epoca.