Non diverso è l'atteggiamento che verso gli elementi scenici rivela Stanislavskij, sia quando, nella preparazione dello Zar Fedor, segue le orme dei Meininger e si avventura in un viaggio sui luoghi del dramma, con tutta la compagnia, per immergerla in quel clima e riportarvi quanti più oggetti autentici possibili, sia quando, nelle regie cechoviane, presta un'attenzione tale anche al più minuto dei particolari scenici e lavora con tale precisione alla riscrittura delle didascalie, da spingerci a parlare di una vera e propria partitura registica della scena. L'ansia di ricostruzione storica, d'altronde, e la cura verso i movimenti d'assieme caratterizzano la nascita della regia un po' ovunque. Basti pensare al nome di Charles Kean, che accompagnava l'uscita dei suoi spettacoli con opuscoli che dichiaravano la fedeltà filologica della ricostruzione degli ambienti, o, per restare in Italia, ricordare l'allestimento della sua Francesca da Rimini da parte di D'Annunzio. La scena della battaglia sugli spalti, percepita come confusa dal pubblico e dalla critica perché faceva annegare il dialogo d'amore tra Paolo e Francesca nel fragore dell'insieme, o la cura maniacale con cui il poeta batteva le botteghe d'antiquariato romane per trovarvi oggetti adatti alla bisogna hanno, da sempre, fatto parlare di questo come dello spettacolo antesignano di una regia che in Italia stenterà ancora molti anni ad affermarsi. Ma torniamo alle regie checoviane di Stanislavskij, in quanto ci consentono di spostare in avanti il nostro discorso. La ricostruzione filologica dell'ambiente, così come si presenta nella regia storicistica, limita ancora la dimensione scenica in uno spazio embrionale in quanto a scrittura. Ha un ruolo fondamentale per suscitare il sentimento del vero nello spettatore e dare concretezza all'azione, ma non incide, in fondo, sulla configurazione drammatica del testo. Ben diverso è il caso di Stanislavskij. I suoi appunti di regia si rivelano quali "partiture" sceniche, e quindi a tutti gli effetti scritture, perché, pur sviluppandosi all'interno della didascalia originale del testo, la dilatano e la rendono portatrice di un orizzonte di senso proprio. Un caso esemplare è rappresentato dal terzo atto de Il Gabbiano, ed in particolare dalla scena dell'incontro tra Arkàdina e Trepliòv, subito dopo il tentato suicidio di questi. Madre e figlio sono a confronto in una sequenza dall'intenso pathos drammatico che esplode in un attacco di furia reciproca e poi si stempera in un pianto riconciliatore. Il tutto mentre Arkàdina medica la ferita che Kostja si è procurato alla testa. Checov costruisce l'andamento drammatico della situazione riuscendo a far emergere, in maniera sottile, tutto tutto l'intrico emotivo che lega i due personaggi tra loro. Emerge, così, fin dalle prime battute l'infanzia mai cresciuta di Trepliòv nel rapporto con la madre. Condizione che Checov, d'altronde, si era già premurato di farci rilevare nel primo atto, proprio poco prima dell'inizio della disastrosa recita di Nina, facendo citare ai due personaggi lo scambio di battute tra Amleto e Gertrude nella closet scene del quarto atto. La memoria, infatti, lo riporta ad uno scambio privilegiato, unico, mitizzato che cerca invano di essere riproposto adesso, quando Trigorin si è intromesso tra loro ed ora si insinua pure nel rapporto con Nina. La gelosia è il detonatore dello scontro tra i due, che esplode aspro, incalzante, bruciante, concentrato da Checov in uno scambio serratissimo di battute. Cui succede il pianto liberatore di Kostja prima e della madre poi, in un abbraccio che li unisce in nome di un'infelicità senza speranze. Stanislavskij entra nel ritmo serrato della situazione drammatica, articolando in maniera più compiuta ma, soprattutto, più qualificata sul piano espressivo le annotazioni sceniche di Cechov. Il libro di regia dello spettacolo ci consente di ricostruire fin nel dettaglio l'andamento degli avvenimenti. Stanislavskij sa che l'iniziale tranquillità della conversazione in realtà, è solo apparenza che cela una autentica burrasca di sentimenti. Sa, pure, che la situazione emotiva non va denunciata subito per non appiattire il climax drammatico della scena. Prescrive, così, che i due siano tenuti continuamente occupati per tutto il tempo, che le loro mani non stiano mai ferme, che la medicazione non sia solo un'occasione di postura, per gli attori, ma una realtà intimamente vissuta. Arkàdina la esegue con una cura ed una precisione maniacali che, in realtà, nascondono altro, il suo animo turbato, una tensione nervosa che non conosce sbocco, la paura che si possa arrivare, prima o poi, ad una resa dei conti. La quale esplode, improvvisa, e coinvolge, anzitutto, gli oggetti e la disposizione scenica degli attori. Arkàdina getta la fascia in faccia al figlio, in due si muovono attorno al tavolo mentre si lanciano le loro ingiurie, una sedia viene sbattuta per terra. Poi la bufera si placa ed entrambi i personaggi hanno un crollo: Arkàdina si allontana verso la porta e piange (situazione questa non prevista da Cechov) mentre Trepliòv si accascia in lacrime sul sofà. Solo allora, quando si accorge del pianto del figlio, Arkàdina riprende il controllo della situazione: beve un bicchiere d'acqua per calmarsi, si avvicina, consola il ragazzo e giunge, infine, l'abbraccio liberatorio. Nel caso che abbiamo citato, ma se ne potrebbero trarre infiniti altri dalla produzione cechoviana di Stanislavskij, la dimensione scenica è andata direttamente ad incidere sul piano testuale, modellandone il senso in modo originale. Si è fatta quindi scrittura intessendo un proprio dialogo (tutto rappresentativo, ancora, non autonomo) con la scrittura drammaturgica. D'altronde come riesce Stanislavskij a caratterizzare nei termini di un melanconico realismo psicologico il teatro di Cechov? Attraverso la recitazione, certo, anzitutto, introducendo, in un modo ancora sperimentale, il lavoro sul sottotesto, rarefacendo i ritmi dell'azione, riposizionando la battuta rispetto al gesto del personaggio. E poi immergendo l'attore dentro uno spazio coeso, ricco fino all'inverosimile di segnali forti. La ricostruzione dettagliatissima dell'ambiente, il peso nuovo dato alla presenza dell'oggetto ed il rapporto che con esso istituisce l'attore, la memorabile partitura di suoni e rumori, accanto ad un uso ambientale della luce (con ricadute, però, anche psicologiche) sono altrettanti segni di una scrittura che determina il luogo scenico come spazio attivo di convergenza della scrittura drammaturgica e di quella attorale. D'altro canto, per quanto riguarda quest'ultima, la costituzione di una partitura gestuale che eccede i consueti limiti di sostegno ed accompagnamento della battuta per divenire occasione di un ritratto "muto" del personaggio, difficilmente può essere pensata come esclusivo patrimonio del lavoro d'attore, ma qualifica l'intervento che su di esso fa il regista immettendolo, di fatto, all'interno dei segni della scrittura scenica. Non è esagerato dire, allora, che già nel caso di Stanislavskij quella scenica è la scrittura che prima e più delle altre caratterizza la dimensione artistica della regia, consentendo di ottenere una "interpretazione", una lettura personale del testo (anche in chiave critica), senza manipolarne il materiale verbale e narrativo. Non si tratta, evidentemente, ancora di un processo creativo autonomo, in quanto vige un rispetto quasi ossessivo per la disposizione drammaturgica e scenica (battute e didascalie) del testo, ma si introduce un atteggiamento verso la dimensione drammaturgica e scenica (battute e didascalie) del testo, ma si introduce un atteggiamento verso la dimensione scenica dello spettacolo che la configura come scrittura operativa all'interno di uno scambio dialettico con le altre componenti dello spettacolo, immettendola di forza tra gli elementi che, attivamente, ne determinano l'impianto drammatico.