Sia il teatro di regia, dunque, che quello che si sviluppa nel seno delle avanguardie elaborano un'attenzione molto speciale per la scena, facendone, di fatto, l'elemento centrale per la rifondazione del teatro. Sia che tale rifondazione venga considerata come ripristino di un'identità originaria, che una prassi sconsiderata ha fatto smarrire, sia che si offra come adesione ad un nuovo sentire, alle trasformazioni, non solo culturali, ma anche antropologiche che caratterizzano la Modernità. Di fatto, allora, quando, negli anni Sessanta, la scrittura scenica viene proposta come modello di teatro, ha già alle spalle una sua storia, una sua identità, anche se non del tutto espressa, ancora, sul piano teorico concettuale. Ha una sua "tradizione", insomma, quella che Bartolucci, sulla scia di un fortunato libro di Harold Rosenberg, chiama la tradizione del nuovo. Un insieme di riferimenti, di esperienze che hanno caratterizzato in maniera forte la prima parte del Novecento facendone una straordinaria fucina di innovazione. La cesura drammatica della Seconda guerra mondiale e, ancor prima, il cosiddetto richiamo all'ordine che attraversa tutta l'Europa negli anni Trenta, fanno sì, però, che negli anni Cinquanta questa memoria storica, anziché essere una base riconosciuta da cui ripartire, sia soprattutto, una memoria da recuperare, da riscoprire addirittura. Quando, a partire dagli anni Sessanta, si afferma una nuova generazione di riformatori del linguaggio teatrale uno dei problemi che essi si pongono è proprio quello di ritessere le fila con quanto prodotto sia sul piano operativo che su quello teorico nella prima metà del secolo. Lo stesso termine di neoavanguardia con cui, spesso, facciamo riferimento a quelle ricerche sta a testimoniare di questa intenzione. Ma il problema non consiste solo nel recuperare la lezione dell'avanguardia degli anni Dieci e Venti quanto, ancora più a monte, nel ripensare alle strategie operative messe in moto dalla regia creativa. Si può parlare, anzi, in questo caso di un ripensamento di quella lezione che, assieme al recupero della proposta di rifondazione linguistica delle avanguardie, crea i presupposti per la nascita di una nuova qualità del linguaggio teatrale che si risolve nella assolutizzazione della scrittura scenica. "Con la "scrittura di scena" - scrive Maurizio Grande puntualizzando la distinzione con la regia - lo spettacolo diventa testo multimediale, e l'interpretazione registica (ma anche quella attoriale) diventa autonoma operazione di linguaggio teatrale". La scrittura scenica quale modello di teatro, allora, nasce da un lato come presa di distanze dalla dimensione interpretativa e dalla logica della messa in scena, tipiche di un certo modo di intendere la regia, risultando, altresì, come una vera e propria trasfigurazione della dimensione autonoma e creativa della regia stessa, di quella seconda linea che si afferma a partire da Craig, con una accentuazione, però, degli elementi più direttamente ed immediatamente scenici. Detto in altri termini possiamo anche parlarne come di una forma particolare che la regia assume nella seconda metà del Novecento, evolvendone dei principi ma contraddicendone anche altri in nome di una diversa specificità del linguaggio del teatro. Esiste, dunque, più di un elemento di ponte tra la scrittura scenica come si presenta nella prima metà del Novecento e cosa diventa nella sua seconda parte; elementi che creano una tessitura di linguaggi al cui interno, però, esistono, e vanno rimarcate, le differenze. Se la scrittura scenica, insomma, è una qualità moderna del linguaggio teatrale, nel senso più ampio del termine, in cosa si distingue quale modello linguistico proprio delle neoavanguardie? Quali i tratti propri di questa particolare stagione della storia del teatro? In che misura, e con quale ragione, possiamo parlarne come di un codice che fonda un modo di "parlare teatro"? Si tratta di interrogativi di particolare portata e complessità, affrontare i quali vuol dire entrare dentro l'universo contraddittorio rappresentato dalle ricerche che si originano dagli anni Sessanta, per coglierne quello che potremmo definire il portato linguistico epocale, quello, cioè, che individua la "lingua parlata" al di là ed oltre le singole affermazioni di poetica. E' quanto ci ripromettiamo fare nei prossimi capitoli, affrontando il modello di teatro proposto dalla scrittura scenica per nuclei tematici. Questo proprio per cercare di mettere in luce le qualità codiche della scrittura scenica, quelle che la qualificano, a nostro avviso, come la lingua comune delle neoavanguardie e, probabilmente, più in genere del teatro del secondo Novecento. Non vuole essere, dunque, il nostro un lavoro di ricostruzione storica ma di codificazione problematica, stando le pratiche sceniche citate ad esempio ad illustrare le diverse modalità operative presenti per ciascun assetto specifico della scrittura scenica. Esempi, dunque, e parziali, nel senso che si è preferito , comunque, allargare quanto più possibile i riferimenti, questo non significa che si vogliono abbracciare, nel corso della trattazione, tutte le esperienze qualificanti la stagione presa in esame, né che la collocazione di questo o quel protagonista all'interno di un problema espressivo anziché di un altro comporti la volontà di relegarlo ad esso. Ciò che ci preme è sforzarci di capire come funziona la scrittura scenica nel teatro del secondo Novecento attraverso l'osservazione diretta delle pratiche che ad essa, esplicitamente o meno, fanno capo. Il riferimento privilegiato, s'è detto, è quello alle neoavanguardie, o nuovo teatro come lo stesso fenomeno troviamo spesso nominato, quell'universo di esperienze complesse e diversificate che attraversa la scena internazionale tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. E' questo, a voler essere precisi, l'arco temporale che più correttamente racchiude l'oggetto del nostro studio, anche se spesso faremo riferimento ad esperienze più recenti, sia perché molti degli artisti sono tutt'ora operativi, sia perché il fenomeno stesso non può dirsi, a rigore, chiuso. I passaggi tra una fase storica e l'altra, si sa, risultano spesso sfumati e coglierli con precisione è particolarmente difficile specie quando c'è una compromissione diretta con le esperienze artistiche, quando queste ci sono contemporanee. Così l'arco temporale che ci siamo dati come riferimento riguarda, soprattutto, la stagione più radicale della ricerca teatrale, quella, cioè, in cui la scrittura scenica vi è enunciata senza mediazioni e compromessi. Quella, allora, in cui è più facile comprendere la distinzione netta, proposta da Bartolucci e Grande, con la stagione della regia. E', infatti, allora che si esprime di più e meglio la volontà degli artisti di proporre la scrittura scenica come modello di teatro e, soprattutto, come modello antagonista. Un modello - nato, come già abbiamo avuto modo di dire, come modello parziale - che si radica nella cultura teatrale contemporanea, fornendo precisi punti di riferimento che fondano una modalità di linguaggio che esprbita dalla intenzione antagonista e "di tendenza" di partenza.