Una volta messe a punto le questioni metodologiche e teoriche connesse alla scrittura scenica, possiamo tornare a porci il problema delle coordinate storiche. In quanto codice moderno la scrittura scenica sembra essere l'elemento linguistico che più è meglio caratterizza l'esperienza teatrale novecentesca, trascorrendovi da un estremo all'altro e determinandone non poco la specificità linguistica. Con peculiarità distinte, però, tra quanto accade nella prima metà del secolo, quando la scrittura scenica appare come codice all'interno del modello linguistico del teatro di regia, ed una seconda - a partire dagli anni Sessanta - in cui, invece, si fa modello di teatro e di costruzione formale essa stessa. Nella prima metà del Novecento la scrittura scenica appare come strumento di rilancio e riscatto della specificità linguistica del teatro all'interno del nascente fenomeno della regia. E' allora che la componente scenografica cessa di essere un elemento laterale rispetto all'interpretazione del testo. Denis Bablet, anzi, ne considera le trasformazioni come l'elemento che meglio qualifica quella stagione della storia del teatro. Fare una storia dell'evoluzione del dècor significa, per lui fare, sostanzialmente, una storia della regia, perché le innovazioni che vengono introdotte in ambito scenografico non sono comprensibili od apprezzabili al di fuori della valutazione complessiva della messa in scena. Se, nel corso di tutto l'Ottocento, la ricchezza degli apparati visivi agisce su un piano puramente decorativo, senza intervenire a definire la qualità drammatica dell'opera, a partire dai Meininger, e poi via via con Antoine, Stanislavskij, Appia, Craig e tutti i grandi riformatori, si va ad una ridefinizione del rapporto tra la scena e gli altri linguaggi teatrali. Bablet parla, al proposito, di un'armonia di spirito, che si viene ad istituire tra testo e scenografia e di un accordo plastico tra questa e l'attore, a significare l'integrazione delle diverse scritture all'interno di una progettualità teatrale che ha nel concetto di unità il suo fulcro teorico, e nell'affermazione della figura del regista, quello operativo. La rivoluzione operata dalla regia agli albori del Novecento rappresenta, dunque, un presupposto importante del concetto di scrittura scenica, così come verrà formulato in seguito. Non che, prima, la dimensione visuale e scenica dello spettacolo fosse irrilevante o poco significativa dal momento che, come la storiografia teatrale ci ha ormai insegnato a capire, non è possibile parlare quasi mai di un a priori del testo letterario scisso dalla sua connotazione scenica ed è, anzi, il caso di rilevare come scena e parola non fossero, generalmente, sentite come due entità distinte, ma come un unico processo di scrittura. Solo che, ed è questo l'elemento che ci preme rilevare, quella scenica era scrittura in quanto "scrittura della lingua" del teatro. Cosa significa? che la scrittura scenica rappresentava la convenzione, il modello complessivo di rappresentazione al cui interno il testo veniva accolto e da cui era, in gran parte determinato, quanto alla sua costruzione formale. L'uso della maschera, tanto per fare un esempio, di una skenè non rappresentativa, di uno spazio architettonico universale o la distinzione tra orchestra e palco e tra coro e personaggi non facevano parte dei materiali di scrittura di Eschilo o Sofocle, ma costituivano un elemento determinante della lingua teatrale che il teatro ateniese consentiva di parlare ai suoi autori. Analogamente Shakespeare utilizzava l'elementare, quanto sofisticata, macchina scenica del teatro elisabettiano, ma non ne faceva parte della sua scrittura drammatica. Non"scriveva la scena", insomma, ma scriveva "a partire dalla scena". Cosa accade, invece, in occasione dell'affermazione della regia a partire dalla fine del secolo scorso? L'introduzione dell'apparato scenico tra le scritture attive, cioè operative, di cui si serve il teatro. E' questa la ragione che spinge Artioli, pure così prudente nell'invitare ad un uso non generalizzato del termine, a parlare di scrittura scenica già in occasione della regia. E' proprio allora, infatti, che si sente il "bisogno di una presa di possesso critico dei propri strumenti di lavoro", che l'attenzione verso la scena da pratica di mestiere si traduce in operazione creativa, critica e consapevole. Il lavoro sulla scena, così, va a qualificare più complessivamente il progetto teatrale. "Il problema della ricerca di una nuova spazialità al di fuori delle costrizioni imposte dalla boite - scrive in accordo con quanto sostenuto da Bablet- tende ad identificarsi con quello della messa a fuoco di una libertà demiurgica in espansione". Detto in altri termini, la riforma del teatro, nel primo Novecento passa inevitabilmente attraverso una riforma della concezione della scena, a cominciare dalla messa in discussione della scatola ottica tipica del teatro all'italiana che condiziona e vincola non solo la ricezione dello spettacolo ma la sua stessa realizzazione. "La scrittura scenica verrebbe così progressivamente a costituirsi nel corso del diciannovesimo secolo, preceduta da un periodo di gestazione" afferma infine, cogliendo nella nascita della regia il momento di discrimine tra due modi distinti di concepire la scena ed i suoi apparati, che adesso, finalmente, vengono pienamente considerati come linguaggio. E già Marotti si era pronunciato in questi termini quando scriveva: "converrà chiarire che fino a quando non si è portato al livello della coscienza il problema della validità artistica dello spettacolo e si è individuato criticamente e teoricamente il concetto di necessità registica, non si può parlare di storia, ma soltanto di preistoria della regia".