L'attore, dunque, istituisce un rapporto di decostruzione col testo attraverso l'abisso aperto nelle sue parole e grazie alla sua presenza di corpo. Già a proposito dei primi spettacoli Bartolucci parlava di questo corpo, che definiva come corpo-azione, come dell'elemento perturbatore per eccellenza dell'ordine costituito della rappresentazione. Era un corpo, in quei primi spettacoli, provocatoriamente dinamico, attivo, nello smontare e slabbrare ogni possibile forma rappresentativa (foss'anche solo visiva). Quando, come nel caos del Macbeth horror suite , siamo di fronte ad un corpo statico, immobile, passivo, il discorso, sul piano semantico, non è diverso. Il corpo rappresenta sempre un elemento di resistenza, un'impossibilità che, se riguarda in primo luogo la rappresentazione (come messinscena del testo) tocca adesso anche la pure dizione della parola. Il gesto ha, in questo contesto, un rilievo determinante. Distrae, come abbiamo già detto a proposito del Riccardo III, l'attore dalla sua parte, lo rende estraneo alla sua credibilità scenica. E' parte costitutiva di quello spreco che concorre a definire una scrittura della decostruzione. Ma è un gesto apatico e afasico. E' un gesto, cioè, che accenna un dire e subito lo cancella, che introduce un fare e subito e subito lo annulla, che mostra un essere e immediatamente lo sfigura. E' un gesto "inutile", che non produce, cioè, alcuna utilità all'obiettivo di rendere comprensibile il personaggio. Funziona un po' come il colpo di straccio con cui Francis Bacon sfigura il volto dei suoi ritratti. Un segno di individuazione sul piano formale che agisce dentro la rappresentazione rendendola impossibile. Il ghigno (letto come distanza parodica rispetto al "detto" ma anche come spasmo involontario del volto) è ciò che meglio identifica questo valore destrutturante della gestualità. Proiettato sul volto, lo "slabbramento" afasico della rappresentazione si concentra in questa icona dell'irrapresentabilità della battuta e del personaggio tutto. Nel ghigno si concentra, come in emblema, sia l'afasia che l'impedimento di cui parla Deleuze. Il ghigno è la forma massima di una espressività (mimico gestuale, e quindi scenica) che non dice, ma distoglie, semmai, dalla possibilità stessa del dire. E' come se tra senso e segno, tra scena e dramma si creasse una sorta di inseguimento, paradossale però, perché destinato a non concludersi mai. Il circolo vizioso, il giro di giostra che si istituisce tra i diversi segni della scrittura scenica, ne rappresentano l'anima decostruttrice. La scenografia come galleggiamento dei segni nell'indistinto di un buio che cancella ogni iconografia possibile; il ghigno come espressione della messa a morte dell'io (inteso come luogo di inveramento del dire); la parola recitata come avventura ai limiti del silenzio portano ad un'idea di teatro come stadio critico del linguaggio, come messa in contraddizione definitiva della sua coesione. I segni sono dispersi, sul piano semantico, perché non possono più trovare un elemento organizzatore che li organizzi. Non c'è , insomma, alcun motivo d'ordine che possa, prima o poi, venire in soccorso. Se non a condizione di negare il teatro come variazione continua del linguaggio (per citare ancora Deleuze) e ricondurlo dentro l'alveo della messinscena, luogo, questo sì, di quella autentica deprivazione della forza perturbante della scena, rappresentata, nelle parole di Bene, dalla regia e, soprattutto, dal teatro di regia. Il Lorenzaccio è lo spettacolo in cui, probabilmente, Bene si ritaglia, in questo caso, uno spazio di reale, tangibile alterità non solo dal testo, ma anche dalla scena. E' solo, su un palcoscenico che sembra il riflesso di un "oltre lo specchio", dove tutto, cioè, è ribaltato. Non Lorenzaccio, dunque, ma il suo doppio femminile, armato non di spada e armatura ma di grembiule e piumino, sottratto non solo all'azione drammatica, ma anche a quella scenica. Da un lato, infatti, vi è Bene come doppio eliogabalico di Lorenzaccio, dall'altro, di fronte a noi con le spalle all'attore, Contini, "gigante guerriero inesistente, rumorista assordante dei gesti lorenzacci". Contini è il rumorista che anima l'armatura vuota di Lorenzaccio, che dà corpo alla scrittura dei rumori di scena. Ma "il suo chiasso non ha significato; chiasso storico e basta; così come l'ipotesi di un significante impazzito è a tutto azzardo dello spettatore". "Contini suona, amplifica i movimenti, i passi lorenzacci, ostentandone il sincrono e l'asincrono, ma per suo conto"; costruisce, cioè, una partitura sonora dissonante rispetto a quella gestuale. Il mondo oltre lo specchio in cui si trova ad agire Lorenzaccio, infatti, non solo è privo di costituzione sul piano narrativo ma è deprivato anche su quello percettivo: è un mondo muto. Attore distinto dal personaggio, dunque, azione distinta dal racconto, gesto separato dal suono. La decostruzione del linguaggio è condotta alla sua frontiera estrema. A sancire l'irrecuperabilità della frattura Bene fa sì che non sia il suono a sovrapporsi al gesto ma questo ad inseguire, in un'inevitabile tragicomico ritardo, quello. Contini "suona" una musica gestuale che Lorenzaccio non riesce mai a realizzare scenicamente. L'idea che traspare dietro al Lorenzaccio è quella di un teatro (inteso come luogo dell'indicibile, spazio dell'irrapresentabile che tenta di farsi evento) in conflitto con lo spettacolo. L'uso magistrale che Bene fa delle possibilità espressive del teatro, conduce ad una lacerazione estrema ed insanabile del linguaggio, alla impossibilità dello spettacolo, come luogo di visione, sostituito da uno spettacolo come oggetto di contraddizione. A qualcosa di così radicale da essere definito da Bene stesso come "teatro senza spettacolo". La scrittura scenica - che Bene ha, negli anni, voluto sostituire con l'immagine di una macchina attorale che cancella il visivo e lo risolve tutto nell'attore, nella sua non aderenza al personaggio - diventa, così, una scrittura della cancellazione della scena. Ciò che il teatro mostra, però, non è la scena cancellata, quanto l'atto di cancellazione della scena stessa, la cancellazione del dramma, dell'interpretazione, della messinscena. Il problema, allora,sembra essere quello di stare dentro il teatro, stando contro il teatro. Il linguaggio è affrontato come una aporia irrisolvibile ed è posto in uno stato di contraddizione permanente. La scrittura scenica diviene strumento di tale contraddizione permanente. La scrittura scenica diviene strumento di tale contraddizione, occasione per smuovere il teatro dalle sue fondamenta. Dove la rappresentazione concilia gli elementi contraddittori del linguaggio, la loro inevitabile incongruità (perché i tre piani distinti della fabula, della scena e dell'interpretazione attorica coincidano), la scrittura scenica sembra, invece, intenzionata a non sanare la contraddizione e, semmai, ad esasperarla. Accanto a quello di Bene (e lungo la via di questi aperta) può essere interessante verificare un secondo esempio indirizzato in questa direzione, quello della Societas Raffaello Sanzio, la compagnia che con più convinto estremismo ha percorso, negli ultimi quindici, venti anni, la via di un teatro di decostruzione.