"Scansati abitudinario del teatro - scriveva Claudia Castellucci in un testo-manifesto di qualche anno fa - qui non ci sono immagini per te. Non ci sono cose da vedere per essere commentate dal punto di vista estetico. [...] Questo è il teatro che rifiuta la rappresentazione", e, nell'introdurre il suo approccio all'Amleto (trattato, singolarmente, come un ragazzo autistico) aggiungeva Romeo Castellucci: "Non è un Amleto "malato" di autismo. Non si tratta , dunque, di una rappresentazione sull'autismo. Così come non è una rappresentazione sull'Amleto". Sin qui, apparentemente, niente di nuovo rispetto a quanto detto a più riprese riguardo ad un teatro, come quello della scrittura scenica, che dalla rappresentazione non perde occasione per prendere le distanze. C'è, però, un aspetto originale del discorso della Societas Raffaello Sanzio (e di Romeo Castellucci che, in qualità di regista, ne rappresenta l'anima più tecnicamente teatrale) di grande interesse che consiste nel fatto che ad essere posto in contraddizione non è solo lo statuto della rappresentazione, ma ogni possibile statuto di linguaggio. Al codice della rappresentazione non è opposto, quale antagonista, quello di un teatro di puro evento scenico. Alla negazione del primato della letteratura drammatica non subentra la centralità dell'immagine. La scena, e la scrittura che la denota, servono, invece, per agire all'interno della illusione della certezza del linguaggio, cullando "il progetto di mettere in crisi la retorica certezza dello "stare in piedi" delle immagini", come scrivevano i componenti del gruppo a proposito della icona capovolta che campeggiava nel secondo tempo di uno dei loro più riusciti spettacoli, quel Santa Sofia che li lanciò nel 1985. Cosa significa, nel linguaggio di Castellucci, lo "stare in piedi delle immagini"? Che il linguaggio abbia una sua logica, una sua coerenza, una sua direzione. Che le parvenze, il "realismo ottico" lo chiama, corrispondano ad una forma di verità. Che, insomma, pur se risolto in forma contraddittoria e frammentaria il linguaggio, in qualche misura, "funzioni". E, invece, ciò cui aspira la Societas Raffaello Sanzio, è una vera e propria disfunzione del linguaggio. La decostruzione agisce sulla forma teatrale come una pressione che non consente vie di fuga. L'unico linguaggio possibile - nell'ottica della Raffaello Sanzio - è quello della rappresentazione negata; di una rappresentazione, cioè, che è rifiutata quale principio d'ordine del linguaggio (finalizzando tutti i segni ad un medesimo obiettivo), ma non può essere sostituita da alternative liberatorie. Il processo di decostruzione, avviato con lo smontaggio del codice teatrale, non si risolve nell'istituzione di un nuovo codice (come può essere, ad esempio, quello della performance o del Teatro immagine). Sembra, anzi, che vi sia, nel teatro della Raffaello Sanzio, una sorta di irriducibilità ad un codice definito. Le immagini, certo, vi hanno grande importanza, ma non è un teatro di immagini; lo spettacolo appare come un grande evento performativo, eppure le azioni non si risolvono mai nel puro qui ed ora del loro apparire; si ha la sensazione di una forte consistenza drammaturgica, eppure il testo vi è negato. Già questi segnali di irriducibilità ad un codice linguistico sollecitano l'idea di un funzionamento ambiguo e contraddittorio del linguaggio, quella che ci è piaciuta chiamare la sua disfunzione. Ce ne sono, altri, però, se si vuole, ancora più chiari in questa direzione. Analizzando il principio di costruzione che sottende la Genesi , Romeo Castellucci dichiara, ad un certo punto, che "da un oggetto si passa all'altro, da questo a quello, creando una sorta di catena che è anche una costellazione simbolica con un suo percorso, un torrente di segni che passano, anzi, trasmigrano, da una forma all'altra", per aggiungere, poco più in là, che si tratta di un "lavoro di cascate: da una forma si cade in un'altra, in un'altre e in un'altra ancora". Quanto emerge da simili affermazioni è l'ipotesi di una costruzione drammatica che sia ad un tempo apparentemente incongrua, e quindi altrettanto apparentemente priva di significato, e precisa sul piano simbolico, se non addirittura narrativo. Lo spettacolo è diviso in tre parti, rigorosamente autonome le une dalle altre. Nella prima si concentra la creazione; nella seconda c'è una sorta di Paradiso Terrestre (abitato solo da bambini) trasformato in qualcosa di simile ad Auschwitz; Caino è il protagonista della terza. La chiarezza quasi apodittica delle intenzioni risulta, però, sul piano dell'esame dei segni teatrali, soffusa di un'aura enigmatica. Manca, infatti, un racconto in senso stretto; complessa può apparire anche l'individuazione dei personaggi, eppure l'organizzazione del'insieme dei segni spettacolari, proprio in quanto segni puri ed arbitrari consente alla fine la tessitura di un "possibile" registro simbolico narrativo. La scena inaugurale è spiazzante: un gruppo di personaggi di fine Ottocento ascolta immobile una conferenza in ebraico. E' l'inizio del testo della Genesi, ma di cosa si tratti a noi è taciuto, e così sarà per tutto lo spettacolo. Quindi il conferenziere, che è stato sin lì colpito da un intensissimo raggio luminoso (e vuole essere Lucifero, il portatore di luce), tenta di attraversare una sottilissima fessura, impresa in cui riuscirà solo quando il suo corpo magrissimo sarà completamente nudo. In quel momento buio totale ed un urlo amplificato a dismisura: siamo all'origine dei tempi. E qui comincia un insieme di immagini ambigue ed intensissime: un negro dalla immensa statura e la testa d'oro che soffia nuvolette di polvere; un corpo contorto e quasi scomposto in una teca di vetro che tenta di assumere una forma; una donna che avanza nuda in un urlo muto che esce dalla bocca spalancata e via discorrendo. Si tratta di segni che, a considerarli nella loro flagranza, non sembrano portare in sé alcun significato decodificabile e, invece, messi a confronto reciproco, nel passaggio a "cascata" da uno all'altro disegnano i contorni "possibili" di un Dio creatore, di un Adamo nascente, di una Eva esiliata. Un processo analogo di significazione si produce per tutto il corso dello spettacolo, che sembra costruito da un insieme di segni gratuiti (neanche esteticamente definiti, essendo che non si tratta di immagini scelte per essere belle) i quali, però, portano in sé un immenso potenziale semantico. E' su quel potenziale, sulla possibilità di trasformare il segno visivo in elemento di una significazione possibile che lavora Castellucci. Ma cosa significa che il significato, il simbolo, il racconto sono "possibili"? Che restano sostanzialmente virtuali, non traducibili, cioè, in un linguaggio diverso da quello della scrittura che li ha generati. che si fermino a livello di enigma, di interrogativo inesauribile. Che significato ha quel calzino bianco che nella prima scena viene sfilato dal piede del Dio negro e passa di mano in mano di scena in scena, con dentro una zampa di gallina, per giungere, alla fine, a Caino che lo indossa e lo riempie di uova? Non è qualcosa che abbia un senso proprio, ma non è neanche una pura provocazione scenica. Se ci limitiamo ad enumerare quanto vediamo possiamo parlare di un segnale di Dio, banale, marginale, inutile, di un frammento del suo corpo che ci raggiunge nell'esilio e lo popola di segni iconici "divini" di cui non conosciamo il senso ma ci accompagnano e ci incontrano ad ogni crocevia del vivere. Non sono i segni a produrre significato in sé, ma la loro trasmigrazione, la loro cascata da una forma all'altra. Allora Castellucci è come se costruisse una complessissima macchina di significanti puri, privi di connessione logica e rappresentativa, i quali, però, posti a reazione in una situazione di sostanziale incoerenza formale, producono racconto. Un racconto squisitamente, esclusivamente teatrale e scenico, che non può abbandonare la scrittura della scena per affidarsi a quella della parola. E' un procedimento di costruzione particolarmente interessante. Anzitutto perché mette in gioco la relazione dialettica e complessa di scrittura, forma e racconto e poi, ed è veramente singolare, perché sembra ribaltare sul piano della creazione artistica, quelle indicazioni di decostruzione che, a partire da Derrida, si vogliono applicate alla lettura dell'epoca. Cosa sostengono, in breve, i decostruzionisti? Che un testo, qualsiasi testo, altro non è che un territorio da percorrere attraverso la lettura. Che non ha importanza, insomma, se e quale significato il testo porti racchiuso in sé, in quanto è il lettore che, posto di fronte alla griglia dei segni formali, può e deve trarne una propria personale attribuzione di significato. Quando Castellucci dice, a proposito della scena iniziale della Genesi: "Questo rimane ambiguo, ma è un passaggio e anche l'immagine di un parto", aggiunge subito dopo: "Almeno così potrebbe essere, non c'è mai una risposta univoca a queste forme, solo ipotesi che anche io esprimo in questo momento". Mentre, a proposito dell'immagine del calzino, specifica: "Ma perché metta le uova nel calzino non lo so; molte altre cose non so, molte le scopro dopo: forse è così". Si pone, cioè, in una posizione contraddittoria rispetto al meccanismo di significazione che lui stesso ha messo in moto. La dinamica narrativo-simbolica non è il risultato della costruzione formale e non è neanche ad essa sovrimposta dall'esterno. Piuttosto è il risultato di una interferenza di un passaggio formale da un segno all'altro e, in quanto tale, è virtuale, in qualche modo instabile, mutevole e soggettiva, proprio come accade, secondo quanto sostengono i decostruzionisti, nei meccanismi della lettura. La decostruzione del linguaggio - e qui gli esempi tratti dal lavoro della Societas Raffaello Sanzio potrebbero moltiplicarsi all'infinito - diventa una forma di costruttività. Se nel teatro di Carmelo Bene si tratta di depotenziare l'ansia pacificatrice della messa in scena nei confronti del potere dirompente del testo drammatico che si fa attore, nella Raffaello Sanzio decostruire vuol dire assumere il frammento come motivo inaugurale della creazione e poi affidarlo all'interferenza semiotica con altri frammenti per organizzare la non organizzabilità del linguaggio. Di qui la sensazione di disfunzione, di un linguaggio cioè, non negato in quanto tale, non cancellato ma posto in una condizione di patologia artaudiana, di devianza. Ciò che risulta, da esperienze come queste, è che l'approccio decostruttivo alla scrittura scenica non produce, necessariamente la cancellazione del dramma, quanto, piuttosto, l'affermazione della sua negazione.