E' in questo, più che nelle realizzazioni formali, che consiste l'influsso determinante che l'happening ha avuto sulla evoluzione del teatro degli ultimi quarant'anni. L'ipotesi che il teatro possa essere ricondotto ad un insieme di azioni, non legate tra loro da collanti narrativi od espressivi, ma dal semplice accadere in una successione nello spazio tempo, ha funzionato come uno straordinario messaggio liberatorio, schiudendo alla scrittura scenica la possibilità di offrirsi come più ampia, e ben più radicale riforma della logica che sovrintende la costruzione dello spettacolo. Non una diversa composizione (e gerarchia) dei segni linguistici, ma un loro ribaltamento. Teatro è, in primo luogo, scrittura di un tempo e di uno spazio. Reali, non rappresentativi, giocati da un'azione che si risolve nel semplice accadere qui ed ora, senza doversi destinare necessariamente ad una qualche produzione di senso. E' ancora nelle parole di Kantor che troviamo un significativo riflesso di questo atteggiamento decostruttivo sul piano del significato: "Ricondurre i significati a dei valori puramente fonetici, giocare con le parole, dar loro più sensi, "dissolvere" il contenuto, allentare i legami logici, ripetere". Affermazioni come questa, o le precedenti, di Kantor vanno riferite al periodo degli anni Sessanta, significativamente intitolate come Teatro zero, e non possono, quindi, essere estese in maniera acritica alla fase più nota in Occidente del suo lavoro, quella del Teatro della morte, anche se un processo di decostruzione semantica è sempre presente nella sua scrittura registica. Interessante può essere, sempre al riguardo, ricordare anche l'esordio di uno dei testi chiave, sul piano teorico, del teatro del secondo dopoguerra, Lo spazio vuoto di Peter Brook: "Posso scegliere uno spazio vuoto qualsiasi e decidere che è un palcoscenico spoglio. Un uomo lo attraversa e un altro osserva: è sufficiente a dare inizio ad un'azione teatrale". Subito dopo Brook si affretta a specificare che la nozione di teatro comporta implicazioni più complesse che non il semplice atto di compresenza di un attore e di uno spettatore in uno stesso luogo, anche se è interessante notare come il fondamento, la base grammaticale del linguaggio teatrale vengano colti in un evento scenico precedente ogni significazione possibile. Brook, però, nel corso del suo discorso, pur rilevando l'importanza dell'happening quale elemento di frattura, ne critica la ripetitività formale, l'effetto di shock gratuito e non realmente attivo sul piano di una comunicazione autentica con lo spettatore. C'è, in questo atteggiamento radicale, il riflesso riconoscibilissimo delle esperienze maturate nell'ambito dell'avanguardia storica che Kirby ripercorre con grande puntualità, a segnalare quanto e come l'happening funzioni come trait d'union tra due momenti distinti della cultura teatrale. Il recupero della lezione dell'avanguardia (come abbiamo già avuto modo di ricordare) comporta non solo un aggiornamento delle possibilità di scrittura del teatro, ma investe, più generalmente, il senso complessivo dell'esperienza artistica, cui viene affidato il compito di investire in maniera profonda e totalizzante lo spazio del vissuto, perché assuma quella dimensione estetica in grado di farne l'oggetto di una strategia rivoluzionaria. Ma c'è un'influenza dell'happening che riguarda più direttamente la specificità artistica del teatro. La centralità del qui ed ora come scrittura dell'evento conduce a confidare nella verità del momento scenico in opposizione alla finzione della rappresentazione. Se il teatro deve, e vuole, essere scambio, comunicazione diretta tra individui, se vuole recuperare un'incisività, anche politica, sul piano relazionale, la autenticità della scrittura scenica rappresenta uno strumento che nessuna simulazione, nessuna illusione riuscirà mai a fornire. Si tratta, evidentemente, di spostare i termini in gioco, anche rispetto a quanto detto poc'anzi. La scrittura del qui e dell'ora non è, necessariamente, una scrittura asemantica (come voleva Kaprow), ma rende possibile un meccanismo di comunicazione e di produzione di senso diverso da quello convenzionalmente attribuito ad un evento artistico. La scrittura scenica deve riuscire ad essere costruzione di una verità, di uno spazio-tempo autentico entro cui individui diversi possano riconoscersi reciprocamente come parte di un'unica dimensione comunitaria. Il teatro vuole essere luogo di scambio, e può farlo solo come evento reale, come luogo di verità. Ma a condizione che i termini verità e realtà vengano assunti in una logica del tutto originale: non riferiti a qualcosa da mostrare in scena cioè (come prevede un contesto rappresentativo), ma riscontrati nella concretezza del fare, nella identità dell'attore come soggetto, come uomo e non come veicolo del personaggio, nella cosità del luogo, nella sua presenza fisica di oggetto spaziale. (In un testo del 1987, La Scena della Perdita, mi sembrava possibile individuare, quale segno distintivo comune dell'avanguardia storica e di quella recente (in particolare della Postavanguardia), la "presa alla lettera" del linguaggio, il fatto, cioè, che prima e al di là della dimensione referenziale, il segno teatrale è assunto dall'avanguardia come fatto reale. In tal caso, però, in un gioco di ribaltamento tra verità e finzione accadeva che quest'ultima diventasse in assoluto la verità artistica, a discapito dell'altra, la verità del reale, che veniva, di fatto, messa fuori gioco. Oggi come allora mi sembra di poter dire, che la scrittura scenica, sia essa data come "finta verità"che come evento autentico, nega in entrambi i casi la dimensione referenziale dell'accadimento scenico, e pretende, invece, di trovare in sé, le ragioni della sua identità linguistica.