L'ipotesi analitica C'è anche una terza forma che la decostruzione può assumere all'interno del nuovo teatro. E' quella che fa riferimento ad un atteggiamento "analitico" verso il linguaggio; l'atteggiamento, cioè, che "sposta i procedimenti dal piano immediatamente espressivo o rappresentativo a un piano riflessivo, di ordine metalinguistico, impegnandosi in un discorso sull'arte nel momento stesso in cui fa concretamente dell'arte". Un simile atteggiamento, sostiene Menna, sarebbe presente come una costante nell'arte contemporanea, caratterizzandone fisionomia e sviluppi. Il linguaggio, in tal caso,, non è assunto come mezzo d'espressione, ma come oggetto stesso della operatività artistica. Pur senza voler sovrapporre discorsi che riguardano il teatro, va detto che l'analisi di Menna ci offre possibilità di interpretazione preziose. L'intero percorso della scrittura scenica, infatti, appare, per più versi, improntato a quella determinazione analitica che Menna riconosce nell'avanguardia storica e nelle declinazioni aniconiche e concettuali dell'arte contemporanea. In tal senso, ad esempio, può essere letta la posizione di Craig o quella di Kaprow, ma, in fondo, anche la visionarietà di Artaud. Nel momento in cui questi rifiuta ogni categoria d'ordine nella valutazione delle strutture fondanti del teatro, ricorre, comunque, ad un sezionamento strutturale delle forme linguistiche. Decostruisce, cioè, il codice teatrale nella prospettiva di individuarne il tessuto essenziale e primario; quella, in altre parole, che, nella prospettiva analitica, viene definita la struttura fonematica del linguaggio. Direi, allora, che una componente analitica accompagna l'intero sviluppo dell'idea di teatro che alla scrittura scenica fa riferimento, in quanto, alla radice, vi è la necessità di individuare i principi di fondazione, gli elementi che istituiscono la possibilità stessa del linguaggio. Più evidente, ovviamente, diventa il discorso nel caso in cui l'atteggiamento metariflessivo non rimane implicito ma viene programmaticamente enunciato in quanto tale. In quei casi in cui, cioè, si tende ad operare un sezionamento del linguaggio teso ad evidenziarne le strutture primarie, senza che queste, poi, vengano indirizzate a qualche fine rappresentativo secondo. In quei casi in cui, quindi, la decostruzione non è una pratica di accesso al linguaggio ma diventa l'oggetto ed il fine dell'operatività teatrale. Scrive Federico Tiezzi, che di quel tipo di esperienza è stato uno dei principali promotori: "E' fondamentale, oggi, porsi di fronte al teatro come davanti a una tastiera: esplorare le possibilità, avventurarsi a conoscerne i mezzi. E legato strettamente a tutto questo è il desiderio di mentalizzare, concettualizzare ogni fase del teatro". E' negli anni Settanta, a seguito di esperienze quali quelle dell'happening, che l'attenzione verso i meccanismi strutturali del linguaggio viene programmaticamente esposta. Il problema, affermava Tiezzi allora (e con lui Sandro Lombardi e Marion D'Amburgo con cui aveva fondato la compagnia del Carrozzone, poi Magazzini criminali e quindi I Magazzini) è quello di affrontare il linguaggio come una macchina semantica, di scardinarne i nessi formali e quelli logici, per accedere, in maniera quasi chirurgica, al piano delle strutture minimali, quelle che caratterizzano un linguaggio nei suoi elementi costitutivi primi. Si procede in tal modo, come scrive Silvana Sinisi: "Ad una destrutturazione del linguaggio teatrale attraverso un'investigazione sistematica condotta sugli specifici, adottando un atteggiamento riflessivo che sposta il discorso dal piano immediatamente comunicativo-espressivo a quello raffreddato dell'analisi". E' un atteggiamento mentale, quello che sottende una simile scelta, che tende a privilegiare la riflessione rispetto al fatto spettacolare, il progetto (e il processo, quindi) rispetto al prodotto: "L'artista - scrive al proposito Achille Mango - non espone più l'oggetto ma il concetto dell'oggetto, mettendo in crisi il valore di esteticità a vantaggio di quello di speculazione". Lo spettacolo diventa l'occasione di una messa in discussione degli statuti del fatto teatrale: non l'accadimento, non l'evento - come nel caso dell'happening - ma i meccanismi strutturali che sottendono ogni avvenimento ed ogni evento. Nel mentre accade come fatto che si concretizza nel qui ed ora della scena lo spettacolo diventa anche interrogazione attorno al linguaggio. Perché questo sia possibile è necessario anzitutto tracciare una sorta di mappa fonematica della scrittura scenica, di modo da utilizzarne solo i segni primari e minimali, in secondo luogo considerare lo spettacolo come testimonianza, realizzazione transitoria di un lavoro che trova nella fase progettuale (mentale e concettuale) il suo momento più autentico. Paradossalmente, si viene a determinare una situazione in cui - sulla scia dell'insegnamento dunchampiano - la realizzazione materiale dell'opera assume un significato del tutto secondario ed incidentale rispetto al progetto estetico che l'ha determinata. I riferimenti privilegiati che il teatro analitico si scelse, per operare in questa direzione, furono, abbastanza naturalmente, quelli delle arti visive. Era lì che si era andata affermando una tendenza concettuale che negava radicalmente il prodotto estetico e lo riformulava sul piano di un pensiero critico astratto. Nell'ambito teatrale questa spinta alla smaterializzazione fu, per molti versi, meno drastica, ma comportò, comunque, la ridefinizione del ruolo dello spettacolo in relazione al progetto teatrale che lo motiva. Scrive ancora Federico Tiezzi: "Intendiamo i due termini spettacolo-teatro nel senso che Saussure attribuì alla dicotomia parole-langue; dove la "parole" è il singolo atto espressivo individuale, mentre la "langue" è il sistema di valori da cui tale atto può partire e a cui si riconduce per essere compreso". La scrittura scenica diventa, in questa prospettiva, una sorta di elemento di congiunzione tra i due estremi della langue e della parole. Non più lo strumento per costruire uno spettacolo, ma quello per decostruire il teatro. Come è possibile arrivare a questo, per quali vie si arriva ad ottenere una destrutturazione "concettuale" del linguaggio, tale da evidenziarne i nessi strutturali con una spietatezza ed un rigore tutti analitici? Lasciamo, nuovamente, la parola a Tiezzi: "E' necessario prima azzerare il proprio linguaggio e ripartire con lo zero dai procedimenti elementari, reimparare a muoversi, a stabilire contatti, a misurare lo spazio che ci circonda, a pesare i suoni che ci escono di bocca". Siamo di fronte ad un progetto molto chiaro. Analizzare il linguaggio vuol dire ricondurlo al suo grado zero. Lì, dove il segno non si è ancora adattato a farsi strumento della produzione di senso. Una volta negata la rappresentazione e ricondotta l'azione tutta e solo nell'orizzonte del qui ed ora della scena, bisogna procedere al suo dissezionamento analitico. Azione è occupazione di uno spazio e di un tempo attraverso il movimento. Bene; questo movimento altro non indicherà che la presenza del corpo dell'attore nella fisicità concreta del luogo scenico. Essendo dato uno spazio, l'azione consiste nel tracciarne, attraversarne, misurarne, le dimensioni nel corso di una durata temporale determinata. Lo spettacolo non è che il risultato visibile di quell'investitura nello spazio-tempo. Ma anche solo conservare lo spettacolo nella sua integrità, in una forma unitaria risolta una volta e per sempre, sembra ridurre la portata di "speculazione concettuale" dell'operazione. Ciò che interessa a Tiezzi non è tanto mostrare (o, peggio, rappresentare) la dimensione spazio temporale della scrittura scenica, ma verificarla in azione. Di qui l'idea di destrutturare anche lo spettacolo, negandogli unitarietà e riducendolo al montaggio di diversi "studi per ambiente", "cioè studi, pezzi staccati, non però nel senso di abbozzi per un'ipotetica tela finale, non mezzi ad un fine, ma fini a se stessi, cioè strumenti analitici, ipotesi di rifondazione". Gli "studi per ambiente" rappresentano tante diverse soluzioni al problema dell'occupazione di uno spazio attraverso un'azione. Gli elementi dati sono il corpo dell'attore, l'enviroment di un luogo dato, la luce che lo illumina. Il mezzo per analizzare come si organizza la macchina linguistica dell'azione scenica è fornito dall'individuazione di gesti minimi, in relazione allo spazio, che vengono analizzati in tutte le loro componenti. Lo spettacolo che con più chiarezza si rifà a questa impostazione è senz'altro Vedute di Porto Said. Si tratta di un sequenza di scene (la cui serie può variare) in cui si completano tanti momenti scenici, l'uno distinto dall'altro. L'azione è trattata secondo diversi principi. Può, ad esempio, iniziare con un gesto quasi impercettibile, che si ripete diverse volte con piccole aggiunte successive fino a completare l'intero corso dell'azione. Viceversa può replicarsi uguale a sé stessa in una sorta di parossismo ritmico o, infine, crescere in una prima fase e poi decrescere. Le singole azioni, poi, altro non sono che gesti di misurazione dello spazio. Una misurazione che mette in gioco ed in relazione corpi e luoghi, dando alla freddezza della dimensione analitica un palpito ed un fremito di vissuto: alzarsi da una sedia e camminare lungo una parete; entrare ed uscire da un vestito appeso ad una corda; alzarsi da una poltrona fino a che una corda legata al braccio non impedisce il movimento, e via di questo passo.