Decostruire indica, letteralmente, il processo di "scomposizione di una elaborazione concettuale in componenti che, analizzati compartivamente, contribuiscono a mostrarne la relatività storica". più in generale è un termine che allude ad un processo compositivo opposto a quello della costruzione. Lì dove questa tende ad articolare le singole parti, i singoli frammenti in un insieme organico, la decostruzione, invece, aspira piuttosto ad entrare nel corpo coerente del linguaggio per disarticolarlo, di modo che le singole parti finiscano per venire assunte nella loro originaria dimensione frammentaria. E' un'espressione, dunque, che ben si presta ad indicare l'approccio al linguaggio tipico di gran parte del nuovo teatro. Un approccio ispirato proprio al libero attraversamento delle strutture linguistiche e ad una scrittura che interviene sui nessi rappresentativi disarticolandone la coerenza. Gli anni Sessanta sono anni di forte contestazione, e non solo in ambito teatrale. In tutte le arti si esprime l'esigenza di un attacco frontale al sistema. Sistema economico e produttivo ma anche sistema linguistico. E' una vera e propria strategia politica che pone al centro dei suoi obiettivi la rifondazione da zero degli statuti della operatività artistica. In primo luogo, allora, viene posto il problema di una disarticolazione radicale della nozione, e della forma specifica, di opera d'arte così come ce la consegna la tradizione, introducendo elementi di frattura o, come ci piace chiamarli, di decostruzione che tendono a superare la distinzione tra i diversi specifici artistici, a negare il feticismo dell'opera d'arte ed a valorizzare il processo creativo rispetto al prodotto. Anche in ambito teatrale le strategie operative che vengono messe in moto si richiamano a valori analoghi, spesso proprio sulla scia di quanto si andava verificando in contesti contigui, quello delle arti visive in primo luogo, che diventano come in fondo era già accaduto per l'avanguardia storica, fonte importante di ispirazione. La contaminazione tra i linguaggi, il recupero di un fondamento antropologico della pratica teatrale, la risoluzione dello spettacolo sul piano effimero dell'evento rappresentano alcune tra le soluzioni adottate per caratterizzare una volontà di contestazione globale del sistema e del linguaggio teatrale. Il problema sembra essere da un lato coinvolgere sempre più da vicino la pratica della scena con l'esperienza del vissuto, dall'altro disarticolare le forme della scena ed agire creativamente dentro e su tale disarticolazione. All'interno di una simile progettualità la scrittura scenica va ad assumere un significato del tutto particolare. Se ne abbiamo parlato, più volte, come del luogo di fondazione di uno specifico teatrale autonomo, e quindi come di un centro rispetto al linguaggio, adesso ad essere privilegiata è una sorta di forza centrifuga. La scrittura scenica viene usata come fattore di decostruzione, per introdurre elementi di instabilità, di contraddizione permanente che fanno dello spettacolo un luogo problematico e del linguaggio una questione perennemente aperta. Ad essere coinvolta in questo processo è, in primo luogo,la dimensione drammaturgica, intesa come organizzazione dell'insieme dei segni spettacolari in direzione della rappresentazione della fabula. Drammaturgia, quindi, non intesa esclusivamente come produzione di materiali letterari per il teatro, ma drammaturgia come organizzazione, fattura dell'azione. Parlare di messa in crisi della drammaturgia, da parte del teatro moderno, e del nuovo teatro in particolare, non significa, allora, solo che l'apparato letterario dello spettacolo perde progressivamente di importanza per andare, in molti casi, a sparire del tutto, ma che, posta al centro dell'operazione teatrale la scrittura scenica, questa va ad incrinare la coesione narrativa, rappresentativa ed anche simbolica dello spettacolo, anche quando essa si manifesti attraverso canali visivi o scenici. A ben vedere incontriamo un processo del genere già all'interno della letteratura drammatica, la quale va progressivamente a perdere il ruolo di produzione unitaria di racconto. Lo ricordava già Szondi analizzando la prima, grande stagione della drammaturgia moderna. La crisi del dramma - inteso come forma unitaria della rappresentazione sul piano del racconto, dell'uso del tempo e del rapporto con lo spettatore - è caratterizzata dalla messa in contraddizione di quella compattezza, sul piano rappresentativo, che fa della fabula drammatica un organismo illusionistico perfettamente risolto in se stesso. Lo spiazzamento determinato dall'introduzione di elementi epici - vale a dire di quegli elementi e di quei momenti che impediscono al testo di rinchiudersi su se stesso e richiedono, invece, la presenza, come soggetto attivo, dell'autore da un lato e dello spettatore dall'altro - crea una frattura che avvia il processo di decostruzione nella tessitura drammaturgica del testo teatrale. Szondi si ferma nella sua analisi, per ragioni cronologiche, alla soglia della drammaturgia beckettiana, di cui, oltretutto, neanche comprende bene la portata, ma è evidente proprio come dentro il teatro di Beckett (addirittura passo passo dentro di esso, seguendone le diverse fasi) si vada manifestando con forza proprio una scrittura della decostruzione drammatica. Il testo, cioè, non ha come obiettivo un racconto ma la segmentazione afasica, la frammentazione del racconto, di modo che, alla fine, non ne resti che una possibile situazione drammatica, priva di personaggi (intesi come soggetti psicologici), di azioni da agire, di mondo da rappresentare. La logica della decostruzione interviene innanzitutto sulla drammaturgia, dunque, segnalando una autonoma sfera d'intervento della scrittura che consisterebbe proprio nel mettere in contraddizione l'unità simbolico-narrativa dello spettacolo. Questa contraddizione - che non è detto debba manifestarsi negando spazio alla presenza del testo - si estende, quindi, progressivamente agli altri momenti caratterizzanti lo spettacolo come opera d'arte teatrale. Si comincia, anzitutto, a ritenere che i diversi linguaggi che compongono la scena possano agire su linee parallele, creando interferenze, cortocircuiti tra loro, e non necessariamente quella sintesi, di wagneriana memoria, che aveva accompagnato, come un refrain, buona parte dell'estetica teatrale primo novecentesca. Questa autonomia dei singoli livelli espressivi è il segnale di quella ricerca di libertà, di effrazione dei limiti e dei condizionamenti imposti dagli specifici artistici. Il fatto che un simile approccio caratterizzi l'avventura degli anni Sessanta, e, in parte, dei Settanta, è significativo. Come è significativo che l'atteggiamento decostruttivo arrivi a coinvolgere, infine, anche lo spettacolo stesso come identità specifica, tendendo a negarlo, come vedremo, a trasfigurarlo in un evento effimero, instabile, irrequieto. Si può parlare, quindi, di diversi piani e diversi livelli su cui interviene la dimensione decostruttiva della scrittura scenica: sul piano narrativo, anzitutto, su quello delle strutture dello spettacolo (che è pensato secondo un orientamento riduzionista e minimalista), ma anche, infine, su quello di un vero e proprio attacco alla consistenza stessa del teatro quale linguaggio specifico. Una simile distinzione corrisponde a diversi modi e strategie d'uso della scrittura scenica, tese alcune ad un vero e proprio annullamento dello specifico, mentre, altre, invece, vi agiscono all'interno introducendovi elementi di contraddizione che, però, non lo negano del tutto. Parliamo, dunque, di decostruzione in termini generali, in quanto condizione che indica un processo di disarticolazione del linguaggio che non comporta, necessariamente, la sua negazione come ambito specifico. Cosa che incontreremo talvolta (ed allora sarà più giusto parlare di azzeramento) ma che non è la regola nella riforma teatrale del secondo Novecento. Questa articolazione diversa e contraddittoria dei termini in gioco ci rivela, ulteriormente, come la scrittura scenica sia codice cui fanno riferimento operatività motivate in maniera anche molto diversa, che trovano nella scrittura della scena - intesa barthianamente come pratica della riduzione semantica - un elemento linguistico comune. Ciò che ci preme sottolineare - e che è alla base della escursione di casi ed esempi diversi che ci apprestiamo a fare - è che per quanto legata ad un momento storico preciso (quello degli anni Sessanta e dei primi Settanta) in cui si assiste a tutto campo ad un attacco allo specifico linguistico, la decostruzione resta, comunque, connaturata all'esperienza della scrittura scenica anche in contesti e momenti diversi. Rappresenterebbe, cioè, nella lettura che ne tentiamo di dare, una strategia di approccio al linguaggio che interviene sui codici in maniera da contraddirne gli statuti e da mettere il linguaggio stesso in uno stato di strutturale instabilità. Instabilità e contraddittorietà da cui ripartire per fondare un nuovo codice e, soprattutto, un modello di costruzione formale.