Nei drammi di Checov gli esseri umani vivono nel segno della rinuncia. Soprattutto li caratterizza la rinuncia al presente e alla possibilità di incontrarsi; la rinuncia alla felicità in un vero incontro. Questa rassegnazione, ove nostalgia ed ironia si fondono in un atteggiamento intermedio, determina anche la forma dei drammi di Checov, e quindi il posto che egli occupa nell'evoluzione della drammaturgia moderna. Rinunciare al presente significa vivere ne lricordo e nell'utopia; rinunciare ad incontrarsi significa solitudine. Il dramma Tre Sorelle - forse il più compiuto tra i drammi di Checov - presenta esclusivamente individui soli, ebbri di ricordi, che sognano il futuro. Il loro presente è oppresso dal passato e dall'avvenire; è un intervallo, un periodo d'esilio, dove la sola meta è il ritorno alla patria perduta. Questo tema, intorno a cui verte, del resto, tutta la letteratura romantica, si concretizza come segue: Olga, Masa ed Irina, le tre sorelle Prozorov, vivono da undici anni col fratello Andrej Sergeevic, in una grossa città di guarnigione della Russia orientale. Avevano lasciato Mosca, la loro città natale, perché il padre aveva assunto il comando di una brigata quaggiù. Il dramma ha inizio un anno dopo la morte del padre. Il soggiorno in provincia ha ormai perso il suo scopo, il ricordo del tempo passato a Mosca incombe sulla noia della vita quotidiana e culmina in un solo grido disperato: "A Mosca! A Mosca!". L'attesa di questo ritorno al passato, che deve essere nello stesso tempo il grande avvenire, riempie di sé la vita delle sorelle Prozorov. Attorno a loro ci sono gli ufficiali della guarnigione, consumati dalla stessa stanchezza, dalla stessa nostalgia. Ma per uno di loro il futuro, che per le sorelle si identifica con una meta ben precisa, si dilata ad utopia. Aleksander Ignatevic Versinin dice: VERSININ: Fra due o trecent'anni la vita sulla terra sarà così bella, così meravigliosa come non si può nemmeno immaginare. All'uomo è necessaria una vita simile e se per il momento non è possibile realizzarla, egli deve averne il presentimenti, attenderla, sognarla, preparavisi... E più avanti: VERSININ: Mi sembra che sulla terra tutto dovrà mutare a poco a poco, anzi già comincia a mutare sotto i nostri occhi. Fra due, trecento, mille anni - la data precisa non importa - comincerà una vita nuova, felice. Noi, certo, non parteciperemo a questa vita, ma noi ora viviamo per essa, lavoriamo, soffriamo per prepararla, la stiamo creando e in questo solo è lo scopo della nostra esistenza e anche, se volete, la nostra felicità. La felicità non c'è e non può esserci e non ci sarà per noi!... Noi dobbiamo solo lavorare e lavorare: la felicità sarà per i nostri lontani nipoti. Se non lo saremo noi, saranno almeno felici i nipoti dei nostri nipoti. Ma più ancora di questo atteggiamento utopistico, ciò che isola gli uomini è il peso del passato e la loro insoddisfazione del presente. Essi tutti non fanno che riflettere sulla propria vita, si perdono nei propri ricordi, si tormentano nell'analisi della noia. Nella famiglia Prozorov e nell'ambiente che la circonda ciascuno ha il suo problema su cui viene continuamente rigettato: un problema che lo separa dal suo prossimo. Andrej si consuma nella tensione fra il suo sogno di ottenere la cattedra di professore a Mosca e la sua effettiva posizione di segretario dell'amministrazione agricola. Masa vive, dall'età di diciassette anni, in un'infelice situazione coniugale. Olga, "da quando insegna alla sua scuola, sente dle le forze e la giovinezza l'abbandonano a poco a poco". E Irina, che per liberarsi dal malcontento e dalla tristezza si è gettata a capofitto nel lavoro, confessa: IRINA: Ho passato i ventitré anni, lavoro già da molto tempo, la mente mi si è inaridita, sono diventata magra, brutta, vecchia, e niente, niente, nessuna soddisfazione!...Intanto il tempo passa e mi sembra di allontanarmi sempre più dalla vita vera, bella, di andare sempre più lontano, come verso un precipizio. Sono disperata e non capisco come io stia ancora a questo mondo, come non mi sia ancora uccisa... Si pone a questo punto la questione, come questa rinuncia tematica alla vita presente a favore del ricordo e dell'aspirazione nostalgica, questa eterna analisi del proprio destino permetta ancora quella forma drammatica in cui si era cristallizzata l'adesione rinascimentale al "qui" e all'"ora" e al rapporto inter soggettivo. Alla doppia rinuncia che caratterizza i personaggi di Checov parrebbe dover corrispondere la rinuncia all'azione e al dialogo, le due categorie formali più importanti del dramma; e cioè alla forma drammatica stessa. Ma questa rinuncia è presente solo in germe. Come gli eroi dei drammi di Checov, nonostante la loro assenza temporale e psichica, continuano a vivere la loro vita in società senza trarre le estreme conseguenze della loro solitudine e della loro nostalgia, e restando in una zona intermedia tra il mondo e l'io, fra il presente e il passato, così la forma dei drammi non rinuncia del tutto alle categorie di cui essa - in quanto forma drammatica - ha bisogno. Essa le conserva, senza accentuarle, come qualcosa di ovvio e di secondario, che permette alla vera tematica di concentrarsi, per così dire, negativamente, come deviazione della forma stessa. Così, nelle Tre Sorelle, abbiamo dei rudimenti dell'azione tradizionale: il primo atto - l'esposizione - si svolge il giorno dell'onomastico di Irina; il secondo prende lo spunto dai mutamenti che hanno avuto luogo nel frattempo: il matrimonio di Andrej e la nascita di suo figlio; il terzo si svolge di notte mentre nelle vicinanze divampa un incendio; il quarto, infine, si accentra su un duello durante il quale viene ucciso il promesso sposo di Irina, il giorno in cui il reggimento si trasferisce, e i Prozorov cedono definitivamente alla noia della vita di provincia. Già il fatto che i momenti dell'azione siano accostati senza un nesso preciso e distribuiti in quattro atti senza vera attesa e tensione (come è stato sempre riconosciuto dai critici), mostra qual è il posto che spetta loro nella compagine formale del dramma; sono inseriti, senza un vero significato e valore proprio, per conferire al tema un minimo di movimento in grado di consentire il dialogo. Ma anche il dialogo è senza peso, come un pallido colore di fondo da cui si staccano, come pennellate più vive, i monologhi, in cui si condensa il significato del tutto. L'opera vive, infatti, di questa autoanalisi rassegnate, in cui quasi tutti i personaggi giungono via via ad esprimersi; ed è stata scritta proprio in funzione di esse. Non si tratta di monologhi nel senso tradizionale della parola. Alla loro base non è la situazione, ma la tematica. il monologo drammatico non esprime nulla che non si sottragga per principio alla comunicazione. "Amleto nasconde il suo stato d'animo ai cortigiani per motivi pratici; forse proprio perché essi capirebbero fin troppo bene che egli vuole vendicare suo padre, che egli non può fare a meno di vendicarlo". Altrimenti qui. Le parole sono pronunciate in presenza degli altri, non quando il personaggio è solo; ma sono proprio esse ad isolare chi le pronuncia. Così quasi impercettibilmente, un dialogo inessenziale trapassa in una serie di soliloqui essenziali. Essi non rappresentano monologhi isolati, inseriti in un'opera dialogica; in essi, anzi, l'opera nel suo complesso abbandona il piano drammatico e si fa lirica. Poiché nella lirica il linguaggio è più naturale e auto giustificato che nel dramma; è, per così dire, più formale. Il parlare, nel dramma, oltre ad esprimere il contenuto concreto delle parole, esprime anche sempre il fatto stesso che si parla. Quando non c'è più nulla da dire, quando qualcosa non può venir detto, il dramma tace. Nella lirica, invece, anche il silenzio diventa linguaggio. In essa, naturalmente, le parole non "cadono" più, ma sono dette con una naturalezza che fa parte dell'essenza della lirica. Il linguaggio checoviano deve il suo fascino a questo continuo trapasso dalla conversazione alla lirica della solitudine. Ciò è possibile solo grazie alla grande comunicatività del popolo russo e al lirismo immanente nella sua lingua. Qui la solitudine non è già di per sé irrigidimento. Ciò che l'Occidente conosce forse solo nell'ebbrezza: la partecipazione alla solitudine altrui, l'assorbimento della solitudine individuale nella solitudine collettiva che si sta formando, sembra già insito come possibilità nella natura del russa, sia del popolo che della lingua. Perciò il monologo dei drammi checoviani può trovare il suo posto nel dialogo stesso; perciò, nei drammi checoviani, il dialogo non diventa quasi mai un problema, e la loro intima contraddizione - quella, cioè, fra tematica monologica ed espressione dialogica - non conduce mai alla dissoluzione della forma drammatica. Solo ad Andrej, il fratello, è preclusa anche questa possibilità di espressione. La sua solitudine lo costringe al silenzio, e perciò egli fugge la società; può parlare solo quando sa di non essere inteso. Checov ottiene questo risultato introducendo nell'azione un personaggio sordo: Ferapont, l'usciere della Giunta provinciale: ANDREJ: Buona sera, mio caro. Che novità? FERAPONT: Il presidente vi manda un libro e certe carte. Ecco... (Consegna il libro ed un pacchetto) ANDREJ: Grazie! Va bene! Ma perché sei venuto a quest'ora? Sono già le otto passate! FERAPONT: Come? ANDREJ (più forte): Dico che sei venuto tardi: sono le otto passate. FERAPONT: Veramente sono venuto che era ancora giorno, ma non mi hanno lasciato entrare [...] (Credendo che Andrej gli abbia domandato qualcosa) Come? ANDREJ: Ma se non ho detto niente! (Esaminando il libro). Domani è venerdì, non c'è seduta, ma io verrò lo stesso all'ufficio...farò qualche cosa. A casa mi annoio...(Pausa) . Vecchio mio, come muta stranamente la vita e come inganna! Oggi, per la noia, non sapendo che fare, ho preso in mano questo libro: un vecchio corso di lezioni universitarie: e mi è venuto da ridere....Dio mio!Io sono segretario della Giunta provinciale di cui è presidente Protopopov. Segretario!...E il massimo che possa sperare per l'avvenire è di diventare consigliere. Io, capisci, io che ogni notte sogno di essere professore all'Università di Mosca, d'essere un dotto famoso, di cui tutta la Russia debba essere orgogliosa! FERAPONT: Non capisco...Ci sento poco. ANDREJ: Se ci sentissi bene, forse non ti parlerei di certe cose. Io ho bisogno di parlare con qualcuno, ma mia moglie non mi comprende; delle sorelle, chissà perché, ho soggezione: temo che mi prendano in giro, che mi facciano sentire una gran vergogna...Io non bevo e per le trattorie non ho una gran simpatia, eppure con che piacere, adesso, mi siederei in un grande "restaurant" di Mosca, da "Testov" per esempio. FEAPONT: All'ufficio, tempo fa, l'appaltatore raccontava che a Mosca certi mercanti mangiarono delle ciambelle; uno, che se n'era mangiate quaranta, dicono che morisse. Sì: quaranta o cinquanta, non ricordo bene. ANDREJ: Se te ne stai in una grande sala di un "restaurant" di Mosca, non conosci nessuno e nessuno ti conosce; eppure non ti senti estraneo. Qui invece conosci tutti e tutti ti conoscono: eppure ti senti estraneo: estraneo a tutti...Estraneo e solo. FEAPONT: Cosa dite? (Pausa). Quello stesso appaltatore mi ha raccontato - non so se abbia detto una bugia - che a Mosca, da un capo all'altro della città, hanno teso una gran fune [...]. Ciò che, grazie al motivo della sordità, si presenta qui come un dialogo, è in fondo un monologo, il monologo disperato di Andrej, cui fanno da contrappunto i discorsi di Ferapont, che hanno lo stesso carattere monologico. Mentre di solito, parlando dello stesso oggetto, si manifesta la possibilità di una vera comprensione, qui se ne rivela l'impossibilità. L'impressione di divergenza è tanto più forte , quando si stacca da un fondo fittizio di convergenza. Il monologo di Andrej non nasce dal dialogo, ma dalla sua negazione. L'efficacia di questo parlare senza capirsi nasce dal contrasto, parodistico e doloroso insieme, col vero dialogo, che viene respinto, così, nei paraggi dell'utopia. Ma ciò mette in discussione la forma drammatica stessa. Poiché l'impossibilità di comprendersi è, in questo caso, motivata tematicamente (sordità di Feapont), il ritorno al dialogo è ancora possibile. Gli interventi di Ferapont restano meri episodi. Ma tutto ciò che è tematico, e il cui contenuto è più generale e importante del motivo che lo rappresenta, tende a "precipitare" informa. E il ritiro formale del dialogo conduce necessariamente all'epica. Ecco perché il sordo di Checov indica in direzione del futuro.