"E' tempo che mi riabitui all'aria aperta...quasi tre anni di detenzione preventiva, cinque anni di prigione cellulare, otto lassù nella grande sala...": è così che, nei drammi analitici di Ibsen, si rappresenta il tempo: nominandolo e calcolandolo. Ma al drammaturgo Ibsen era negato di esprimere l'essenza del tempo, la sua durata, il suo passare e la sua azione trasformante: poiché ciò è possibile solo ad una forma letteraria che, non solo tematicamente, ma anche formalmente, permetta la visione simultanea di due momenti temporali separati. Poiché la diversità quantitativa e qualitativa tra l'uno e l'altro è la sola prova lasciata dal tempo del suo fuggire che tutto trasforma. Ma la struttura temporale del dramma è una successione assoluta di attualità, in cui è visibile solo l'attimo di volta in volta presente, anche se - è vero - teso verso il futuro, e in atto di distruggersi a favore dell'istante successivo. Ma l'intesa agente col decorso temporale, che si esprime in questa limitazione al presente, non è il senso del tempo dei personaggi ibseniani. La riflessione inattiva che li caratterizza li sottrae - per così dire - al decorso temporale e permette, solo così, che il tempo divenga per loro tematico. Ibsen tiene conto di questo fatto drammatizzando il romanzo della vita dei suoi eroi solo nel suo ultimo capitolo, e dipanandolo poi, analiticamente, nei dialoghi, a partire da questo finale rappresentato scenicamente. La visione epica simultanea di diversi momenti temporali è realizzata così almeno nella tematica, anche se a scapito dell'azione drammatica e della sua assoluta successione di presenti, che, a causa dell'analisi che domina ovunque, non sono più veramente "drammatiche". Questa critica non tocca, peraltro, la tradizione drammaturgica di cui Ibsen viene spesso, ed erroneamente, considerato seguace. E' sempre accaduto, agli autori drammatici, di trovarsi di fronte ad una materia la cui estensione temporale pareva renderla inadatta al dramma solo concentrandola nella sua fase finale. L'esempio classico è quello della Maria Stuarda di Schiller, che mostra nello stesso tempo, con estrema chiarezza, la differenza rispetto a Ibsen. Poiché Schiller non mirava affatto a narrare a ritroso la vita della regina scozzese, e tanto meno si può dire che quella vita gli apparisse come un esempio del passato - divenuto tematico - di un essere umano. In quest'ultimo capitolo è ancora attuale - anzi, è ancora da compiersi - tutta la lotta fra Maria ed Elisabetta; ed è interpretare Schiller attraverso Sofocle, o addirittura attraverso Ibsen, pensare che all'alzarsi del sipario tutto sia già deciso e la sentenza di morte sia già praticamente firmata. Il tempo come tale è divenuto un problema solo per l'epoca postclassica, che chiamiamo borghese, e il cui drammaturgo più significativo rimarrà pur sempre Ibsen. Ma il primo grande documento di questo interesse per il tempo non è un'opera drammatica, ma un tardo romanzo "educativo": L'education sentimentale di Flaubert, e questo interesse tocca il suo culmine nell'opera che impegnò tutta la vita dell'unico allievo di Flaubert: A la recherche du temps perdu di Proust. Uno dei temi principali di questo romanzo si può ravvisare nella tragica dialettica sperimentata da Proust fra il bonheur come desiderio realizzato e il tempo come forza trasformante. Proust fu dolorosamente colpito dalla scoperta che ogni appagamento giunge sempre troppo tardi, poiché mentre l'uomo tende alla meta del suo desiderio, il tempo lo trasforma, e l'appagamento non trova più il desideri in lui, ma cade - immancabilmente - nel vuoto. Perciò, secondo Proust, solo l'imprevisto, che non è mai stato oggetto di desiderio, può rendere veramente felici. Ma solo il romanzo è in grado di rappresentare adeguatamente questa identità - riflessivamente vissuta - di essere e tempo, e non a torto si è accusata la letteratura moderna di un "totale disorientamento", che imponeva di "dare rappresentazione drammatica a sviluppi temporali allo svolgersi progressivo di flussi temporali". Ma non bisogna confondere "drammatico" e "scenico", negando che il tempo possa costituire il tema, non solo del dramma, ma anche del teatro in generale. Basta, infatti, una sola opera in cui sia stata realizzata la rappresentazione dialogico-scenica del tempo, perché questa possibilità sia teoricamente confermata. E questa rappresentazione è riuscita nell'atto unico di Thornton Wilder Il lungo pranzo di Natale (1931). Già nei discorsi tenuti a tavola durante questo "lungo pranzo di Natale" della famiglia Bayard, fa continuamente capolino il motivo del tempo, del suo trascorrere e della sua immobilità: Comunque il tempo non passa mai tanto piano come quando si aspetta che i nostri figli crescano e diventino qualcosa nella vita. Io non voglio che il tempo passi più in fretta. No, grazie tante. Ma cara, il tempo passerà così presto che non ti accorgerai nemmeno della mia lontananza. Che si può fare per aiutarla? - Niente, cara. Soltanto il tempo, soltanto il tempo che passa può darci aiuto quando accadono cose come questa. Addio, caro angelo. Non crescere troppo presto. Resta così come sei. Il tempo vola certamente veloce in un paese giovane come il nostro. Ma il tempo deve scorrere così lento in Europa con quella terribile guerra che c'è laggiù. Che si può fare per consolarla? Solo il tempo che passa può aiutare queste cose. Sì, il tempo passa, ma nessuno se ne accorge, ecco tutto [...]. Me ne vado da qualche parte dove il tempo passa, per Dio. Come passa lentamente il tempo quando non c'è gioventù per la casa. Non resisto, non resisto più [...]. Sono i pensieri, sono i pensieri di quello che è stato e di quello che avrebbe potuto essere. E' la visione degli anni che vanno in polvere, in questa casa... Ma non ci si limita a questi discorsi sul tempo. Il trascorrere del tempo è evocato, per così dire, in una purezza priva e recato a esperienza immediata con mezzi drammaturgici presi in parte dal cinema, ma tali da svolgere pienamente la loro funzione solo sul teatro. "Novant'anni devono essere percorsi in questa commedia, che rappresenta, con moto accelerato, novanta pranzi di Natale in casa Bayard": così si dice nella didascalia introduttiva. L'espressione "in accelerated motion" non va presa alla lettera. Perché, anche se durante il pranzo di Natale rappresentato sulla scena passano novant'anni, il ritmo normale dei gesti e dei discorsi rimane immutato. L'acceleratore non è usato, qui, al modo meccanico in cui è adoperato nel film, dove del resto serve quasi sempre a ottenere effetti comici, e solo di rado a scopi documentari (quando si tratta di processi lenti); e mai, comunque, a esplicitare il trascorrere del tempo. Il cinema, del resto, non risolverebbe col movimento accelerato, ma col montaggio, il compito di descrivere l'avvicendarsi di novanta Natali. Sarebbero accostati fra loro brevi tratti di singole feste natalizie divise fra loro da anni o da decenni, e la loro diversità testimonierebbe della forza trasformante del tempo, che, peraltro, si esprimerebbe solo in questa suddivisione spaziale e in stretto rapporto alle immagini mostrate. Anche Wilder adopera il montaggio e accosta fra loro - come narratore - numerosi squarci, ma come drammaturgo va al di là di ciò che può fare il film, fondendo questi frammenti dispersi nel tempo in un'unità drammatica che dà l'immagine di un unico - anche se "lungo" - pranzo di Natale. Solo questo secondo passo, che trasforma il montaggio epico in un fatto drammatico assoluto e fonda - solo così - la sua continuità, rende possibile quell'esperienza immediata del tempo di cui si è parlato. E' come se si tratti di tempo che il montaggio lascia nella commessure fra i vari pezzi fossero costretti - mercé la compressione dei frammenti in unità drammatica - a uscire dai loro recessi, e saldati a loro volta in un solo decorso temporale, che non costituisce il "lungo pranzo di Natale", ma lo accompagna in modo autonomo. La trasformazione del montaggio che abbraccia novant'anni in un fatto drammatico, determina, in quest'ultimo, una dissociazione del decorso temporale in decorso temporale formale, che corrisponde al tempo della rappresentazione, e in decorso temporale contenutistico, che è dato invece dal montaggio originario. Questa dualità, che per l'epica è ovvia, e trova espressione nel binomio "tempo della narrazione e tempo narrato" di Gunther Muller, ha un effetto speciale nell'ambito drammatico. Il fatto che, qui, i due ritmi temporali non si coprano, provoca un "effetto di straniamento" in senso brechtiano: il passaggio del tempo, che nel dramma, come nella vita attiva dell'azione, è puramente immanente, e non è presente in modo autonomo per la coscienza, viene ad essere sperimentato d'un tratto - per la dissociazione di ciò che dovrebbe essere identico - come qualcosa di nuovo. Come la durata di tempo può essere colta solo come differenza fra due momenti separati, spazializzata in "tratto di tempo", così anche il decorso temporale sembra poter essere esplicitato solo come differenza fra due decorsi temporali immanenti alla vicenda, e affiancati parallelamente. Questa differenza fra i due decorsi temporali, che si può ricondurre alle due fasi della nascita dell'opera (montaggio e drammatizzazione), costituisce il principio formale del Lungo pranzo di Natale. Tutto testimonia della stessa intenzione di far sperimentare, mercé la differenza di cui si è detto, con la massima intensità possibile il passaggio del tempo. Sul piano dell'azione, a questi novant'anni corrisponde la decadenza di una famiglia, come quella che è stata descritta epicamente da Thomas Mann: alla vita costruttiva e agli stretti vincoli di solidarietà delle prime generazioni segue l'alienarsi reciproco dei fratelli, l'insoddisfazione per la piccola città, la fuga dalla tradizione familiare. A questo processo contrasta, sul piano drammatico, il pranzo di Natale, che, come tutte le feste, rappresenta un arresto del tempo, la sostituzione del decorso temporale con la ripetizione, che favorisce il ricordo del passato. Così la staticità della seconda vicenda non costituisce solo la desiderata antitesi alla prima ma - invitando al ricordo - rimanda direttamente ad essa: CHARLES: Oggi fa proprio freddo. Andavo a pattinare con mio padre nei giorni come questo, e la mamma tornava dalla chiesa dicendo... GENEVIEVE (trasognata): "Che predica magnifica! Ho pianto dall'inizio alla fine!". LEONORA: E perché piangev, cara? GENEVIEVE: Perché a quell'epoca tutti si commuovevano alle prediche. LEONORA: Davvero, Geneviève? GENEVIEVE: Era come se le prediche facessero loro tornare alla mente il padre e la madre, Così succede a noi nei pranzi di Natale. Specialmente in una casa vecchia come questa. Questa doppia funzione della ripetizione è ancora più evidente nei dialoghi. Mentre il passaggio dei novant'anni si rivela nei brevi accenni ad aventi sempre nuovi, nel corso del pranzo di Natale si ripetono le stesse frasi quasi stereotipe. Ogni volta si fa l'elogio della predica, si versa il vino con la formula tradizionale, si parla dei reumatismi di un conoscente, o si chiama la cameriera perché serva in tavola. Grazie a queste ripetizioni, la vicenda natalizia si stacca, come un evento sempre uguale a sé stesso dal decorso dei novant'anni, ma insieme testimonia di questo decorso col cambiamento dei nomi del parroco, del conoscente malato, della cameriera, come anche solo per il fatto di ripetersi, che non avrebbe senso se, intanto, non fosse trascorso il tempo. Anche le dramatis personae mostrano il costante dualismo di ciò che muta e permane, in quanto si contrappone - al succedersi di quattro generazioni - il personaggio statico del "parente povero", che vive in casa e cambia una volta sola. E infine questo dualismo è anche alla base dello stile scenico: al pranzo di Natale corrisponde una scenografia realistica: "La sala da pranzo in casa Bayard. Parallelamente alle luci della ribalta e ad esse vicinissima, una lunga tavola imbandita per il pranzo di Natale. Alla sua estremità, alla destra dello spettatore, il posto del capotavola; davanti ad esso, un tacchino arrosto. Una porta sullo sfondo, a sinistra, conduce all'esterno". Ma questo realismo è spezzato dai simboli del tempo: "A sinistra c'è una porta adorna di ghirlande di frutti e di fiori. Di fronte a questa, un'altra porta, drappeggiata di velluto nero. Le due porte simboleggiano la nascita e la morte". E come queste due porte sono inserite bruscamente in una scenografia realistica, così la recitazione degli attori, "naturale" benché non faccia uso di accessori, trapassa di continuo in simbolica: la nascita dei figli è rappresentata dal loro ingresso attraverso la porta adorna di frutta e di fiori; per indicare una grave malattia che dura per anni si fa che il malato si alzi da tavola, si avvicini alla porta drappeggiata di nero e vi sosti esitando; i capelli bianchi - una parrucca che ci si mette quasi inavvertitamente - simboleggiano la vecchiaia; l'uscita attraverso la porta nera simboleggia la morte. Solo grazie a questa elementare scenografia simbolica, che si contrappone - in funzione epica - all'illusionismo drammatico, quest'opera - che è stata definita finora dal punto di vista tecnico un montaggio drammatizzato - si rivela nella sua vera essenza di rappresentazione profana del mistero del tempo.