Un dramma nazionale per l'Italia Non solo in Irlanda, anche in Italia c'era chi aspirava a un teatro improntato a "una luce di bellezza", ma - osservava Giovanni Pozza, autorevole critico del "Corriere della Sera", nella cronaca del 3 marzo 1904 - "da troppo lungo tempo la poesia ha lasciato il teatro e il pubblico si compiace di piccoli intrighi scenici e di critica spicciola. Pozza però poteva ora annunciare un'inversione di tendenza rispetto al generalizzato "verismo della drammatica corrente" poiché, al Teatro Lirico di Milano, la sera prima, "Gabriele D'Annunzio non vinse mai più bella battaglia. Egli non ebbe mai prima il consenso unanime del suo pubblico. Né la Gioconda, né la Città morta, né la Francesca da Rimini furono applaudite senza lotta, lodate senza discussione. La figlia di Jorio impose silenzio ad ogni critica". Era in effetti uno snodo importante perché si è scritto che, con questo, l'Italia ebbe, per la prima volta, anche "un suo dramma nazionale" pur nelle forme di un "dramma etnico", rilanciando, in tal modo, "un'immagine esaltante della patria di tutti, povera e signora". La figlia di Jorio (1903) è una tragedia in versi ambientata fra i pastori di un Abruzzo senza tempo. Alla vigilia di San Giovanni, le sorelle Favetta, Splendore e Ornella preparano l'abito per Vienda, in procinto di sposare il pensoso Aligi, loro fratello. Mentre fervono i riti propiziatori per le nozze, irrompe, inseguita da mietitori ebbri e minacciosi, la figlia del mago Jorio, Mila di Codra. La donna, che ha fama di strega e meretrice, sta per essere scacciata da Candia della Leonessa, madre di Aligi, ma viene infine salvata da Ornella e dal fratello che, in quell'ansiosa contingenza, rivela nei confronti di Mila una fatale attrazione. La figlia di Jorio - osserva Pozza - si sviluppa dalla "lenta descrizione di antiche cerimonie conservate da una razza fedele alla sua terra e alle sue tradizioni" e, "all'apparire inaspettato di Mila di Codra, [...] si muta tosto in un dramma violento e tumultuoso, che scatena le passioni più furiose ed annunzia una terribile catastrofe". Infatti, nel secondo atto, troviamo Aligi, che ha spezzato le nozze ed è fuggito sui monti, avvinto con un casto e quasi religioso legame a Mila. D'altra parte, costei, nonostante la sua reputazione, dimostrerà ad Ornella (che viene a spiegarle le ragioni della sua famiglia) la propria innocenza e purezza. Il padre di Aligi, il brutale Lazzaro di Roio, tenterà allora di possedere Mila con la forza, ma sarà ucciso dal figlio con un colpo d'ascia. Il terzo atto si apre con il lamento funebre sulla salma di Lazaro. Il parricida sta per essere chiuso in un sacco insieme ad un mastino e precipitato in un fiume, sopraggiunge però Mila, che si sacrifica per lui e - dopo essersi assunta ogni responsabilità del delitto - sale sul rogo. Soltanto Ornella comprende la sublimità del suo gesto e le predice il paradiso. Si noterà che - su una trama caratteristica del dramma romantico e persino borghese (si pensi solo al generoso riscatto della traviata) - D'Annunzio fa sfoggio di un imponente pittoresco apparato folklorico e rituale che, nello spettacolo, è reso vieppiù vivido dai bozzetti scenici del "diletto fratello d'arte", l'artista abruzzese Paolo Michetti dagli "occhi miracolosi", cui l'autore aveva chiesto "l'impronta della cita vera", ma solo per "diffondere sulla realtà dei quadri un velo di sogno antico", mirando a creare un'atmosfera più di favolosa e arcaica leggenda che di squarcio naturalistico. Non tutto, in D'Annunzio, era però arcaismo e - ha notato Giovanni Isgrò - talora, nella trattazione della materia drammaturgica, "l'occhio dello spettatore è portato dentro il teatro come l'obiettivo della macchina da presa"; con logica cioè prettamente cinematografica e fotografica. Secondo Pozza, se il poeta "ha saputo conservare il suo predominio anche là dove la parola sembra sovrabbondare" e la tragedia indugiare in particolare nella "descrizione dei riti e dei costumi dell'Abruzzo [...] forse troppo minuta e diffusa", i personaggi dannunziani si confermano "fantasmi di bellezza", "assorti in sé stessi, quasi estranei a quanto avviene intorno a loro, ai casi stessi della loro esistenza". Dagli attori "vergini" e "pieni di vita raccolta" D'Annunzio si aspettava "gesti sobri ed eloquenti, con una voce retta dalle leggi del canto interiore", ma Giovanni Pozza (non favorevolissimo al poeta) fa intendere che in effetti ci si ritrovava innanzi ad una "nuova arte" scenica, che - nonostante "l'esecuzione studiata con cura diligentissima", ad opera di Virgilio Talli - poteva mettere in serio imbarazzo un attore. Era certo il caso del personaggio di Mila, ruolo dapprincipio dedicato alla Duse e passato a Irma Gramatica, che però lo interpretava "con grande uniformità di cadenze e di voce, togliendo così alla parte ogni finezza di sfumature", no ndell'Aligi di Ruggero Ruggeri, che di contro recitò "con un'arte e un'intelligenza interpretativa degna di un grande attore". La collaborazione con Talli, un direttore di compagnia con consapevolezze registiche, conferì un ulteriore primato alla messinscena della Figlia di Jorio, facendola assurgere al rango del "primo vero spettacolo di complesso" nazionale. Era questa un'aspirazione particolarmente sentita da un wagneriano suo malgrado come D'Annunzio, che - nel non favorevole ambiente italiano dominato dai grandi attori - era stato assecondato in tal senso, ma con slanci ed esiti alterni, da Eleonora Duse e da Ermete Zacconi. A partire dalla Figlia di Jorio, D'Annunzio contribuì all'affermazione di un più avanzato concetto di regia, per quanto nel quadro dell'"epoca dell'autore", una fase che sarebbe culminata in Italia soprattutto con Pirandello, facendo intravedere "i primi bagliori del tramonto di quella del mattatore" e orientando - secondo Gigi Livio - la nostra scena verso una trasformazione del verismo e quindi "verso forme di naturalismo più morbide , da una parte, e dall'altra (Duse) verso una recitazione di tipo estetizzante".