Musica del gesto e della parola Vicino alla Duse, maestro autorevole alla Scuola di Recitazione fiorentina e attento storico del teatro italiano, Luigi Rasi è in viaggio a Berlino nel 1910 e non può che ricondurre l'evidente fermento della scena germanica all'insegna di un regista austriaco di appena 36 anni: Max Reinhardt. Ciò che più incuriosisce Rasi è un aspetto solo apparentemente minore del lavoro di Reinhardt: l'espressione pantomimica come componente essenziale dell'arte dell'attore. Così, Rasi, resta affascinato dalla messinscena di Sumurùn, una pantomima di tema orientale di Friedrich Freksa, con musica di Felix Hollaender, rappresentata dai grandi interpreti del Deutsches Theater : L'attore Harry Walden, che sostiene la parte di Nur al Din, negoziante di stoffe e amante di Sumurùn, entra dal fondo della platea nel suo costume orientale; e, percorso tutto un praticabile ornato di fiori, che è tra la porta di ingresso e l'arco scenico, e per cui entrano anche più tardi lo sceicco e il suo seguito, si siede all'orientale, saluta il pubblico all'orientale, e con una dizione tutta orientale di finezza squisita e con una strana melanconia nello sguardo e nella voce, racconta l'argomento della favola, che è dei più intricati, e che ha per fondamento l'amore, la gelosia, la disperazione e il delitto di un gobbo, l'Arnolf, per una ballerina, Leopoldina Konstantin, compiuto il quale, tutti i personaggi, rimasti incolumi, fuggono dall'Harem, traversando con caratteristica trovata la platea sul solito praticabile, in mezzo agli applausi del pubblico entusiasta. Rasi, in questa ulteriore reviviscenza di una scena di ispirazione giapponese non può che lodare le qualità preclare degli attori, che non danno mai l'idea dei mimi, ma semplicemente di egregi artisti drammatici, a cui manchi l'uso della parola [...]. Qui si ammira soprattutto la Konstantin, superba di bellezza nelle linee perfette del volto e della persona, che s'intravede in tutta la sua nudità attraverso i veli della veste notturna dell'ultimo quadro, spiratne grazia o terrore dai lampi dello sguardo, e dalle contrazioni di una bocca piena di voluttà. Anche Reinhardt stava evidentemente cercando in questo curioso spettacolo, che gli avrebbe dato peraltro fama mondiale, una sintesi di fisicità danzante e teatro di poesia, dominandone le atmosfere con autentico genio. Continua Rasi: il quadro dell'harem era "di una lussureggiante bellezza, di una evidenza perfetta e di una perfetta semplicità, in cui è un fondo di due piani percorsi da ringhiere dorate con scale praticabili, oltre anche il secondo piano, di effetto sorprendente". Formatosi come attore al naturalismo di Otto Brahm, Max Reinhardt ne aveva assorbito a fondo la lezione, ma per staccarsene: "La rigorosa autoeducazione all'inesorabile verità - dichiarava nel 1901 - è una conquista dalla quale non si può prescindere e non si può progredire oltre se la si ignora". Ciononostante, Reinhardt aveva avvertito la necessità di "estendere lo stesso alto grado di verità e autenticità a tutto ciò ch'è umano", in un registro lontano da quella critica e da quel pessimismo sociale che il naturalismo esercitava e che, al contrario, il regista avrebbe voluto più sensuale, più aperto alla rivelazione di un volto della vita "che rallegra ed è pieno di colore e di luce". Il teatro insomma doveva tornare "a essere quel gioco festoso che è la sua vocazione più autentica". Attraverso l'esperienza del cabaret Schall und Rauch (1901), che si trasformerà in Kleines Theater, Reinhardt - alfiere di Maurice Maeterlinck, Oscar Wilde, August Strindberg, Frank Wedekind e del prediletto Hugo con Hofmannsthal - assume la direzione del Neues Theater e, nel 1905, anche del prestigioso Deutsches Theater. Qui inaugurerà la sala dei Kammerspiele con Spettri di Ibsen e scenografie di Munch, portando "il capolavoro del vecchio naturalismo in un'area di espressionistica trascendenza". "Il teatro - sosteneva Reinhardt - ha un unico scopo: il teatro, e io credo in un teatro che appartenga all'attore. Non dovranno più valere, come negli ultimi decenni, i punti di vista prettamente letterari", ma - attraverso l'attore - sarà necessario far "riascoltare la musica della parola". Poco prima di lasciare il Neues Theater, nel 1905, Reinhardt vi mette in scena uno dei suoi spettacoli più emblematici, nella sentita intenzione - come osserva Martin Esslin - di "mescolare sovrannaturale, eroismo e grossolana comicità per rappresentare l'ideale barocco della mescolanza di mondi e di stili": Il sogno di una notte di mezz'estate (regia che riprenderà più volte, anche a livello cinematografico nel 1935). Luigi Rasi ci riporta degli echi ammirati del memorabile allestimento, soffermandosi soprattutto su quella suggestiva foresta, montata con apparente illusione naturalistica, ma un impercettibile fluida metamorfosi su una pedana girevole: Ma quale foresta! Pochi tronchi d'albero nei vari piani, come semplici spezzati, alcuni dei quali corporei, di grandezza reale, con panni di frappa e il solito orizzonte unito, ai quali dà la maggiore evidenza, ora in questa ora in quella parte, secondo che in questa o in quella parte sia fissato il luogo d'azione dei personaggi, la distribuzione delle luci, fredde o calde che siano, ma di un effetto ognora sorprendente. [...] La scena della distribuzione della commedia, quelle della prova e della rappresentazione, sono, la prima specialmente, di una comicità irresistibile, molto pel valore dei singoli attori, ma assai più per le trovate buffonesche di atteggiamenti e di suoni, e per la loro esecuzione perfetta, non mai uscente, al solito, dalla cerchia dell'arte. [...] Vera protagonista appare nel Sogno Leopoldine Konstantin colla parte di Puck, un folletto in carne ed ossa, ricco di anima, se non di brutalità, che scorrazza, scivola, saltella, volteggia per la scena con slanci di scoiattolo e capriole e salti mortali da acrobata, o meglio da birichino di piazza e con ringhi veramente felini, non mai toccando nella vertigine dei movimenti bruschi la linea della volgarità. "Sì, io ritengo i classici l'appannaggio più sacro del teatro" sosteneva Reinhardt, che riteneva si dovesse rappresentarli "come se fossero autori di oggi", aggiungendo: "Uno è un attore soltanto quando ha dimostrato di saper recitare Shakespeare". Reinhardt - spiegava Rasi - "non è mosso mai da alcun principio", tranne quello di "spezzare i lacci di ogni tradizione, e scrutare nel fondo di ogni opera, come se fosse nuova, la sua struttura e la sua anima". Per questo, sa passare con disinvoltura dal grande animato affresco del Sogno Shakesperiano all'estrema sobrietà scenica riducendo a volte, come per le frequenti torunèes, a Monaco nel minuscolo palcoscenico del Kunstler-Theater, l'arredo della scena a un orizzonte e due quinte fissi, e a due piccoli spezzati di parete che si allargano e si restringono secondo il bisogno, e variano di colore secondo l'opportunità, colla sapiente distribuzione delle luci, che sono una grande prerogativa del genio del Reinhardt, e mettono sempre lo spettatore in uno stato d'animo, il quale risponde volta a volta per una forza di volontà suggestiva all'opera che gli si svolge davanti. Reinhardt stesso aveva parlato della necessità di articolare le rappresentazioni su due scene ideali: "una grande per i classici e una piccola, intima, per l'arte da camera degli autori moderni", ma, nella sua esuberanza creativa, ne aveva subito aggiunta una terza, imponente, "per una grande arte di effetto monumentale, una Festspielhaus avulso dalla vita di tutti i giorni, un edificio luminoso e solenne, nello spirito dei greci", poiché solo a malincuore la fantasia del regista si adattava al "dispotivismo" della "cornice che separa la scena dal mondo". Ed ecco che Reinhardt - annuncia Rasi - è alle prese con l'Edipo re di Sofocle, ma, pur avendo a disposizione a Berlino fior di sale teatrali, nella sua continua ricerca di una nuova relazione col pubblico, si appresta ad ambientarlo "in una scena improvvisata con quattro colonne al gran Circo Schumann, per creare un ambiente adatto attorno all'antica tragedia, e farvi penetrar più agevolmente il pubblico ignaro". Questo spettacolo, nell'adattamento di Hugo von Hofmannsthal, arriva a Stoccolma nel luglio del 1911 per un'unica rappresentazione e trova ospitalità al Djurgardscirkus. Carl G. Laurin, autorevole critico d'arte e di teatro, affronta con cautela l'esuberante creatività del regista, concedendo che "la rappresentazione di questo dramma in un circo restituisce allo spettatore qualcosa della dimensione spaziale del teatro antico" e che Reinhardt si dimostra assolutamente impegnato a rendere "la perfezione" scenica, "senza risparmiarsi sacrifici e sforzi d'ogni sorta e riuscendo, in questo caso, almeno ad avvicinare il grosso pubblico a quanto di più raro ed estraneo ovvero a una delle opere più squisite nelle quali lo spirito e la concezione della vita e del bello dei greci si sono rispecchiati". Resta il dubbio, però, che certe trovate, "con fanfare e pause ad arte", siano in tono con la tragedia e che la declamazione alta non sia altro che di schietta derivazione e sensibilità germanica. Luci ed ombre anche sugli intepreti, peraltro fra i più legati al magistero reinhardtiano: protagonista era, infatti, il triestino-albanese Alexander Moissi, che esibiva "una voce armoniosa come capita di rado ascoltare": "Le battute fluivano melodiose, sonore e robuste, tanto da riempire gli angoli più distanti dell'enorme spazio". Meno felice nella plastica, l'attore impostava il finale in una chiave "patologica", che risultava "completamente sbagliata, esagerata e priva di gusto, molto togliendo all'impressione di grandezza"; peggio la Giocasta di Rosa Bertens, che poteva solo avvicinarsi ai ruoli amorosi civettuoli. Di contro, un punto di forza delle regie di Reinhardt si confermava l'azione delle "masse ondeggianti, che meritavano ogni lode, tanto più considerando i brevi tempi di prova". Laurin concludeva comunque che "risultava estremamente provocatorio e ravvivante assistere alla battaglia campale combattuta davanti ai nostri occhi da questo Napoleone del teatro, sebbene la vittoria non fosse del tutto piena". Nel 1908, un critico russo, che dopo la Rivoluzione avrebbe occupato ruoli ufficiali di spicco nella cultura sovietica. Anatolij V. Lunacarskij, da attento osservatore, sintetizzava, per quello che si poteva, l'eclettismo di Reinhardt con efficacissimi tocchi: Si tratta di rappresentazioni piene di vita, di poesia, di bellezza. un'unica differenza dai Meininger: un vasto impressionismo, invece dei particolari; anzitutto l'impressione generale. Gli scenari e i gruppi ricordano, per la saturazione dei colori e la libera plasticità Arnold Boecklin. La recitazione è realistica, ma ampia, senza la più piccola concessione al miniaturismo. Una massa di passione e di movimento, a volte discutibile. Insomma, come vorrà un altro profondo conoscitore della cultura europea, Georg Brandes, quella di Reinhardt era una regia che aspirava a diventare "di per sé poesia", attraverso l'esercizio aperto di una teatralità in fondo autoreferenziale e sempre intimamente lussuosa, anche quando esercitata con pochi mezzi. Al di là dell'inevitabile effettismo di uno stile di questo profilo, Reinhardt cercò di fondare l'idea efficace di un attore che praticasse ai livelli più raffinati il gioco infantile e -insoddisfatto delle più consuete soluzioni spaziali - diede impulso all'utopia novecentesca di ricomporre una comunità partendo dal rapporto prossemico interprete-pubblico. Con lui, soprattutto, s'impone un'idea effettivamente napoleonica del regista, imperioso generale sul campo, che si radicherà nell'immaginario teatrale novecentesco, coprendo spesso altre importanti, parallele, ma più latenti, pulsioni innovative.