Il ritorno di re Ubu A Parigi, al medesimo Theatre de l'Aeuvre, nel quale si era manifestato a Yeats, il Dio Selvaggio fece la sua riapparizione il 3 aprile 1909, con Le Roi Bombance (Re Baldoria, 1905) di Filippo Tommaso Marinetti. Dopo tutto, Marinetti era un intellettuale di formazione francese, cresciuto all'insegna del simbolismo, ambiguamente affascinato da D'Annunzio, e, sulla scrittura gonfia e quasi asfissiante di Le Roi Bombance, nonostante i suoi furori scatologici, pesava ancora una forte ipoteca decadente, se non addirittura "barocca", che costruiva la pièce - come osserva Giovanni Lista - "su una metafora gastronomica smisurata sfruttata in tutti i suoi dettagli", quantunque già offrendo una "prima formulazione della figurazione futurista ante litteram". Essa, infatti, qua e là brilla in folgoranti enunciati: "La libertà?...E' il nostro slancio, a rapido volo, verso un azzurro sempre più vasto e dissetante!...Ecco l'unica religione!...". Le Roi Bombance, "tragedia satirica in quattro atti, in prosa", è ambientata "in un'epoca vagamente medievale": morto Panciarguta - cuciniere abile a ingannare la fame che attanaglia i sudditi del Regno dei Citrulli governato da Re Baldoria ("Un enorme naso bitorzoluto [...]. Un ciuffo di capelli biondicci infarinati gli folleggia in mezzo alla fronte [...]. Il suo guastacuore di velluto color crema è teso dall'abbondanza della pancia enorme...") -, scoppia una "rivoluzione intestinale", di cui approfittano i tre Guatteri sacri, Torta, Soffione e Béchamel, per farsi concedere dal sovrano le cucine reali al fine di placare il malcontento. Il trio, però, si rimpinzerà a sua volta di cibo senza troppo curarsi del popolo esasperato. Muore di fame intanto persino il monarca e la plebe si raccoglie attorno al tribuno Famone ("faccia spettrale sotto un'incolta capigliatura nera"), anche se i Guatteri, "Cuochi della Felicità universale", che tengono, come scorta, in salamoia re Baldoria e i suoi vassalli, riescono a controllare la situazione. Infatti, servono agli affamati un Pranzo dei Pranzi, nel corso del quale il monarca viene divorato, stufato, da Famone, e i suoi vassalli dal popolo. Nonostante ciò, le soperchierie dei Guatteri non possono essere nascoste e, denunciate, portano il trio in prigione. Il castello di re Baldoria è però assediato dagli effluvi degli Stagni del Passato, su cui impera Santa Putredine ("gran fantasma spiràlico di bruma azzurrognola), la quale - assecondando il fenomeno della decomposizione e della trasformazione dei corpi - riporta in vita il monarca e i suoi accoliti, che rinascono dai ventri di chi li ha divorati. Re Baldoria torna così sul trono, ma i tre Guatteri incriminati, a forza di corruzione e nell'imminenza di una guerra, riescono a mettersi a capo dell'esercito delle iene. Santa Putredine, con il figlio vampio Ptiokarum, essendo la vera potenza che imprime all'assurda vicenda un atroce andamento ciclico, rigenererà gli affamati per cibarsi daccapo di Re Baldoria. Le Roi Bombance si era posto soprattutto come una metafora pessimistica sulla moderna società di massa (l'edizione francese è dedicata a Paul Adam, autore reazionario si un Mystèere des foules, ma quella italiana, ironicamente, ai leader socialisti, "grandi cuochi della Felicità Universale"). Ci si chiede se - come scrive Marinetti nel 1905 - in questa "tragedia della fame" e "satira crudele di tutti gli intermediari, i tribuni ed altri mediatori della folla imbecille, eternamente affamata di un benessere irraggiungibile", ci sia davvero spazio per "l'individualismo idealista", poiché anche il personaggio dell'Idiota, "poeta di professione" smilzo e malinconico (verosimilmente simbolista), con la sua "fame dell'intangibile", è destinato all'autoannientamento. Le Roi Bombance si prospetta, più che altro, come un dramma anarcoide, sulla linea del primo Marinetti, e sicuramente debitore nei confronti di Jarry. Senz'altro Re Baldoria possiede relativamente i tratti "della maschera violenta e cinica di Jarry", ma si è evidenziato che nessi molto più forti si possono riscontrare proprio sul piano teatrale. Ciò sarebbe "confermato non solo dal titolo del dramma, ma dalla cura maniacale di Marinetti nel tentare di fare della messa in scena del Roi Bombance una copia perfetta della serata dell'Ubu Roi: stesso teatro, il Théatre de l'Aeuvre, stessa direzione artistica, quella del famoso Lugné-Poe". Su "Comoedia" del 3 aprile, anche un compassato Léon Blum si dichiarava certo che "Marinetti era stato costantemente guidato dalla memoria dell'Ubu Roi. Solo che rifarlo non era tanto facile come si poteva credere". Di fronte al "lirismo gastro-intestinale" dello spettacolo, ci si chiedeva inoltre mestamente: "E poi a quale buona recitazione appellarsi, trattandosi di un'opera di questo genere?". Tuttavia, si potevano registrare almeno momenti di pura "buffoneria, che scatenava la delirante ilarità degli spettatori", e individuare qualche caratterizzazione persino accurata, per esempio, nell'offenbachiano Re Baldoria di Jean Adès, "capace di morire in modo clownesco e caricaturale". Di contro, lo stesso Lugnè-Poe (nel ruolo minore di Anguilla), "sforzandosi di interpretare con intelligenza un testo che poco si presta", aveva evidentemente il suo daffare sul palcoscenico, sembrando "molto preoccupato di regolare le entrate e le uscite, come le posizioni che dovevano occupare le comparse". Lugnè-Poe aveva, a dire il vero, anche altre preoccupazioni perché la rappresentazione si tenne in un marasma di contestazioni. Il letterato francese Frédéric Saisset, presente all'anteprima al Theatre Marigny, ricorda che - di fronte a un'opera che, "di scena in scena, non trattava altro che di cibo, intestini, abbuffate", rivelandosi insomma "un teatro di budella" - già il primo atto passò agitato in platea, anche se fu possibile rappresentarlo. Nel corso dell'intervallo, il pubblico si divise tra coloro che si ritenevano beffati e insultati ed altri che reputavano lo spettacolo "un teatro di verità", ma il secondo atto si avviò tempestoso. Se era risuonato in sala qualche rutto, "d'un tratto, un cafonazzo, sollevando la gamba, fece scappare una sonora sconcezza", scatenando la reazione del pubblico che cominciò a chiedere che si interrompesse la rappresentazioni. In effetti, fu calato il sipario, mentre, "dietro le quinte, si accendeva una violenta discussione fra Lugné-Poe e Marinetti, che voleva andare a prendere a pugni gli spettatori, con il direttore dell'Aeuvre che si sforzava di placare il suo furore futurista, spiegandogli che in Francia non erano ammessi certi metodi di persuasione". Così, la "stravagante serata" si risolse "in un immenso clamore di riprovazione", ma ci furono altre due repliche, sebbene sfumasse ogni progetto di tournée europea. Anche questo sito ricorda l'Ubi roi, ma rappresenta soprattutto un'anticipazione delle imminenti serate futuriste, vale a dire l'invenzione, ancora intuitiva, di uno spettacolo come scandalo progettato al fine di rendere dinamica la relazione tra palcoscenico e sala. Il 12 aprile 1909, nonostante tutto, Marinetti era intervenuto a proposito del turbolento debutto di Le Roi Bombance sull"Intransigeant", già prendendo qualche distanza dalla sua "opera giovanile" e, a suo parere, forse troppo libresca e "tradizionalista", concludendo: "La fischio volentieri. L'avete fischiata tutti voi. Siamo tutti futuristi". Marinetti guardava già oltre. Di fatto, a quattro anni dalla sua scrittura, Le Roi Bombance appare sulla scena dell'Aeuvre a poche settimane di distanza dalla pubblicazione il 20 febbraio 1909, del manifesto di fondazione del futurismo, che ribalta l'inquieto pessimismo del dramma in una sorta di fremente vitalismo: Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori o polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi ce fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l'orizzonte, le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aereoplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. (Marinetti e il futurismo) Verosimilmente, con una doppia presenza sul clamoroso palcoscenico parigino della grande stampa (la prima pagina del "Figaro") e dei più celebri teatri d'avangaurdia (l'Aeuvre), Marinetti intende mutare pubblicamente pelle e - muovendo da tutte le ambiguità dell'assurdo dilaganti in Le Roi Bombance - presentare, con una messinscena caparbiamente autosovvenzionata, una sorta di punto di partenza ed insieme di saldatura per una rivoluzione estetica futurista. Con un repentino mutamento di segno, infatti, i miasmi di un passato paralizzante, la stagnazione spirituale che minaccia lo spirito moderno, possono essere fugati; le gerarchie capovolgersi e la folla - pur inquieta e oscura nei suoi umori viscerali e nel suo materialismo - può far brillare un potente dinamismo storico, affidandosi all'energia di un'arte che, una volta di più, si rinnega e autoannienta, ma per dare un indirizzo all'epoca. Ed ecco che il manifesto di fondazione futurista finalmente recita: Noi vogliam cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia ed alla temerità. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno. Appunto: il salto mortale, lo schiaffo e il pugno. Sulla loro ribalda violenza o dinamica, il movimento di Marinetti consegnerà al Novecento una serie di provocanti manifesti specificamente teatrali: nel 1911, sulla Voluttà di essere fischiati, che rivendica al futurismo una teatralità innata, che deve tendere, contro la "fotografia psicologica", a rendere "una sintesi della vita nelle sue linee più tipiche e più significative"; nel 1913, sul Teatro di Varietà, che esalta un "teatro dello stupore, / del record e della fisicofollia", distruggendo "tutte le nostre concezioni di prospettiva, di proporzione, di tempo e di spazio", introducendo "la sorpresa e la necessità d'agire fra gli spettatori della platea, dei palchi e della galleria". Nel 1915, sul Teatro futurista sintetico (Atecnico-dinamico-simultaneo-autonomo-alogico-irreale), fondato su un "dinamismo assoluto mediante la compenetrazione di ambienti e di tempi diversi".