Scena e regia Nel 1910, un uomo d'affari curioso di arte e di teatro, Jazques Rouché, pubblica un volumetto, L'arte teatrale moderna, rendendo conto di quanto si stava sperimentando sulle scene europee. Il saggio di Rouché collegava così con il ceppo dei Ballets Russes il fondamentale lavoro di Georg Fuchs (e della scuola di Monaco), che chiamava alla necessità di "rethèatraliser le theatre" e allineava in sequenza Max Reinhardt, il Teatro d'Arte di Mosca, le teorie di Gordon Craig, di Adolphe Appia,e, infine, le innovazioni introdotte all'Opera di Budapest e da Mariano Fortuny. Il saggio di Rouché può apparire parziale e un po' caotico e ciò probabilmente deriva dalla presa diretta dell'autore rispetto a un processo in evoluzione. Significativamente, Rouché enfatizza che l'elemento unificante di questa corrente è la regia, che deve "mettere in rilievo le linee principali e il carattere proprio della bellezza" di un dramma senza deformarlo: "Il regista deve avere ogni libertà a condizione che i mezzi impiegati siano artistici". Si tratta di una regia non illusiva, elegantemente paragonata all'abile sartoria, ma orientata - per via di "stilizzazione" e "suggestione" - alla "creazione di un'unione più stretta fra il dramma e gli spettatori" (come voleva Appia) soprattutto per mezzo dell'attore, inquadrato in uno spazio organico. Ciò detto, tutta l'esposizione di Rouché mostra una quasi inestricabile commistione fra l'azione del regista e quella di chi deve occuparsi della scenografia, forma elettiva di mediazione fra dramma e pubblico. Non a caso, si chiede l'adeguamento del teatro all'evoluzione estetica della pittura contemporanea e si afferma la necessità che, nella stessa chiave non illusionistica, "il pittore diventi consigliere del regista e che disegni sia i costumi degli attori che le scene e gli accessori e, seduto al fianco dell'autore, coordini, d'accordo con lui e rispettoso interprete del poema, i gesti dei personaggi destinati a entrare pe runa parte in questo affresco mobile che deve essere la rappresentazione di un dramma". E' stato scritto che, fondamentalmente, Rouché si basava "su una vision decorative della scena, intesa in ogni caso come espressione d'arte", in evidente sintonia con la "visione artistica" dei pittori contemporanei, ma è chiaro che, nella percezione di chi si accostava all'epoca al complesso dei fenomeni teatrali novecenteschi che intendevano riformare il teatro, regia e scenografia svolgevano un'azione innovativa convergente e non sempre districabile. Anche l'analisi dei singoli riformatori avanzata da Rouché presenta qualche singolarità: il Teatro d'Arte di Mosca è visto all'insegna, si direbbe, più del Mejerchol'd dello Studio del 1905 che di Stanislavskij e più di Vladimir E. Egorov, scenografo dell'Uccellino azzurro di Maeterlinck, che di Checov. Non mancano le contraddizioni perché Rouchè, pur conferendo, anche negli esempi, tanta importanza all'elemento scenografico, è in particolare affascinato dal rigore di Georg Fuchs, che "ha avuto ragione a paragonare familiarmente le scenografie alle donne di casa: le migliori sono quelle di cui si parla meno. Già, volendo, la scenografia è il buon servitore del dramma; non deve parlare che in caso di necessità. Tutto dovrà contribuire a mettere in risalto il personaggio". Ampio di contro il rilievo conferito alle teorie dello svizzero Adolphe Appia, che, a differenza di Fuchs, predicava la tridimensionalità della scena: "L'errore dei nostri teatri è creare l'illusione scenica per mezzo di oggetti inanimati, mentre ci può venire solo dalla presenza corporea dell'attore. E' lui soprattutto che deve contare e tutto ciò che lo attornia dev'essere subordinato". Da qui la necessità di una scena che usi in maniera efficace e poetica la luce per valorizzare la plasticità dell'attore e una parallela progettazione in senso plastico della scenografia al fine di esaltare i suoi movimenti e le sue attitudini. Con tutti i suoi dislivelli, il saggio di Rouché, da un lato, può considerarsi il primo ritratto di una famiglia di riformatori della scena del XX secolo; da un altro, dovrebbe essere preso in considerazione proprio perché illustra un movimento d'innovazione individuabile, ma non riducibile a categorie semplicistiche, nel quale di fatto la riforma registica e quella scenografica sembrano, se non essere in competizione, sconfinare sovente l'una nell'altra. Nel 1913, Paul Claudel pubblicava "Nouvelle Revue Francaise" un'altra esplorazione su quanto di nuovo stava accadendo sulla scena europea, sebbene si soffermasse su un solo significativo fenomeno: la sala teatrale progettata a Hellerau, l'utopica città-giardino nei pressi di Dresda. Nel 1906, Adolphe Appia, folgorato a Ginevra da una dimostrazione di ginnastica ritmica (euritmia), aveva integrato nella propria visione della scena l'idea che Jacques-Dalcroze aveva elaborato nel tentativo di creare un'equivalenza fra movimenti ritmici corporei e solfeggio musicale. Di fronte alla rivelazione dell'euritmia, scrive Appia: l'attore deve sentire l'ingiustizia che gli si fa, col metterlo quale elemento plastico e vivo, in mezzo a pitture morte dipinte su tele verticali. [...] Ma anche l'autore, il poeta, il musicista, che hanno compreso il valore della ritmica, torneranno a far ricerche sul corpo umano, che è stato da secoli troppo trascurato. Il punto di congiunzione tra corpo e spirito, che solo può dare l'armonia, era andato perduto. La ginnastica ritmica cerca di ritrovarlo: in ciò sta la sua grande importanza per il teatro. La ginnastica ritmica rivoluzionerà però anche la passività dello spettatore. Il risveglio dal ritmo in noi stessi segna la fine di gran parte dell'arte contemporanea, in modo particolare per la messa in scena. Conseguenza di queste consapevolezze fu, fra il 1909 e il 1910, il disegno da parte di Appia di "spazi ritmici" tridimensionali, astratti e geometrici, ma sagomati anche in termini di luce e ombra, ideati per sostanziare scenicamente l'euritmia dell'attore, integrandosi con essa, in quanto appoggi e ostacoli da gestire creativamente. Ad Appia importava evidenziare l'idea di base della ritmica di Jacques-Dalcroze: la "tensione tra attenzione e rilassamento" per renderla "percepibile anche all'osservatore". Il diffondersi delle dimostrazioni della tecnica di Jacques-Dalcroze sollecitò, nel 1910, pure la nascita del complesso scenico di Hellerau, nella cui realizzazione fu coinvolto Appia. Per Appia, il teatro non doveva essere una struttura museale, ma il luogo nel quale fare sbocciare un'arte vivente: "La funzione crea l'organo", sosteneva, e "la prima funzione del teatro di Hellerau - scrive Mary E. Tallon - avrebbe dovuto essere, come per gli spazi scenici, esprimere la presenza umana ed enfatizzare la grazia del corpo umano". Così, il teatro di Hellerau si presenta privo di un arco di proscenio, anzi con una scena aperta e indifferenziata, senza separazioni di sorta, con la possibilità persino di ricoprire la fossa dell'orchestra: Nulla delle attività dell'attore (che Appia ora denominava "colui che agisce") era nascosto allo spettatore (ora fervidamente denominato "partecipante"). [...] La totalità dell'evento scenico era visibile al pubblico. [...] gli spazi dell'attore e dello spettatore erano quasi speculari - ogni area di ripidi livelli in pendenza "proiettava" sia il performer sia il partecipante in uno spazio comune che li univa. [...] Appia concepiva in generale l'evento scenico come uno scambio dinamico fra performer e partecipante. L'idea di fondo di Appia finisce per prospettarsi come un'utopia radicale di superamento della mera rappresentazione in un fenomeno di condivisione che, al minimo, si configura in termini di intensa vibrazione corporea fra agenti e partecipanti. Secondo la testimonianza di Claudel, in uno spazio, dotato di una scena mobile e combinabile a tre livelli, particolarmente attrezzato sul piano dell'illuminotecnica (grazie all'opera del geniale Alexandre Salzmann, artefice di una sorta di organo luminoso, produttore di una variabile luce diffusa), si sostanzia "un atelier che fornisce all'artista, con mezzi estremamente flessibili e plastici, il materiale di cui ha bisogno". Qui "la musica diventa visibile e vivente nei corpi umani" e anche i cori appaiono vividi, "completamente animati e compenetrati dalla vita del dramma e dalla musica". La rappresentazione dell'Orfeo di Christoph Willibad Gluck diventa "incomparabile" ed è anzi "la prima volta, dal tempo dei greci, che la vera bellezza viene portata in un teatro", tanto più considerata l'inadeguatezza delle scene d'opera per una rappresentazione di stampo classico. L'utopia di Hellerau, la cui comunità Jacques-Dalcroze avrebbe dovuto addirittura "musicalizzare" e trasformare, attraverso il ritmo, in Zukunftmenschen, umanità futura, sarebbe stata bruscamente conclusa, come tante straordinarie imprese teatrali in atto o in gestazione, dallo scoppio della prima guerra mondiale. Nonostante la sua brevità, non fu tuttavia effimera ed ebbe anzi un influsso profondo e diramato sui più importanti uomini di teatro e di cultura del tempo da Shaw a Thomas Mann e Franz Kafka, da Reinhardt a Stanislavskij e Nizinskij.