Essere prima di fare "Il falso genio, i falsi gusti, la falsa dizione, il falso colore...questi nemici che il Vieux Colombier vuole distruggere. Lo stile della Francia è uno stile che non conosce menzogna". Possiamo considerare anche Jacques Copeau un sintomo di ritorno all'ordine? A ben vedere, Copeau non aveva mai abbandonato l'ordine e, più che far ritorno ad esso, intendeva inoltrarsi nei suoi rigori, dimostrando appunto che, all'interno della tradizione, era possibile la più ardita avventura artistica. Riformato dal servizio militare, Copeau, fermamente intenzionato a riteatralizzare il dramma, negli anni di guerra cercò di approfondire i fermenti scenici che si agitavano all'estero e che Rouché aveva diffuso. Nel 1915, incontrò a Firenze Gordon Craig e, in una lettera del 10 ottobre al suo collaboratore più stretto, Louis Jouvet, esprimeva soddisfazione per l'illuminotecnica, "con la completa eliminazione delle luci di ribalta e palcoscenico", che l'inglese gli aveva illustrato, concludendo che le sue idee si trovavano "abbastanza sulla nostra linea". Nonostante ciò, i due uomini nutrivano divergenze di fondo o di carattere: Copeau - senza nulla togliere "alla sua importanza come inventore, come iniziatore" - trovava in Craig troppe "illuminazioni disordinate". Il francese poi concedeva senz'altro autorità al regista, purché restasse in rapporto alla drammaturgia e la sua azione avvenisse in assenza di un drammaturgo (come Shakespeare o Moliére) in grado di mettere in scena la propria opera; Craig, invece, non si occupava mai "dell'opera propriamente detta drammatica, se non per deplorare che fosse ingombra di parole". Copeau, infine, era lontano dall'utopia della Supermarionetta teorizzata da Craig, ritenendo l'attore centrale nel processo scenico, mentre, per il teorico inglese, "non si può fare niente di artistico con la faccia umana". E' proprio questa attenzione di Copeau verso l'attore che lo condurrà alla costituzione di una scuola, preliminarmente annunciata nel manifesto del 1913, e che sarà in termini organici attiva fra il 1920 e il 1924: "Pretendevo rivolgermi all'uomo nella sua interezza, fargli prendere coscienza di tutte le sue facoltà di espressione rispetto al teatro, mandare l'attore alla scuola di poesia, e il poeta alla scuola di scena [...]. Avrei potuto prendere per motto la parola tanto semplice e profonda di Goethe: prima di fare, bisogna essere". L'ideale pedagogico si porrà nel tempo, per Copeau, addirittura come una tentazione ad abbandonare la dispersiva e faticosa pratica del teatro, "per servirlo meglio": Il metodo era assecondare nel bambino lo sviluppo naturale dell'istinto di far scena, limitandosi a incoraggiarlo, a fornirgli punti di appoggio, a procurargli i mezzi per esprimersi secondo il suo gusto, la sua immaginazione, il suo bisogno di divertimento. Innanzi tutto rendevano docile il suo corpo. Poi, si passava gradatamente dalla ginnastica alla nozione del ritmo interiore, alla musica, alla danza, al mimo mascherato, alla parola, alle forme drammatiche elementari, alla recitazione consapevole, all'invenzione scenica, alla poesia. All'interno di questa formazione comune, si sarebbero individuati gli orientamenti personali, che avrebbero quindi fatto sorgere specifiche figure artistiche. "Con uno scambio continuo tra la scuola e il teatro - spiega Copeau -, tra il teatro e la scuola voglio impregnare di un medesimo spirito vivo una vera famiglia o confraternita di artisti". Nella scuola di Copeau, avrà una peculiare importanza lo studio dell'improvvisazione, anche nell'intento di "fare rinascere un genere: la nuova Commedia all'improvviso con personaggi e soggetti moderni", e verrà elaborato un allenamento in larga parte basato sull'euritmia di Emile Jacques-Dalcroze, alla ricerca di una nuova armonia tra corpo e verbo. Copeau, se non credeva in un teatro naturalista, era tutt'altro che insensibile al raggiungimento di un esito di presenza spontanea dell'attore, che non poteva non passare attraverso un approccio euritmico, il quale finiva per porre anche la sua "giansenistica" esperienza all'insegna del ritmo. Sempre nel 1915, Copeau aveva incontrato Jacques-Dalcroze a Ginevra ed era restato impressionato da un metodo che "è la vita stessa" e nel quale "ogni istante racchiude il suo scopo". Copeau ne aveva apprezzato soprattutto la disciplina d'insegnamento e, sulle stesse basi, si riproponeva di risvegliare una collettività a una vita attiva, armoniosa, cosciente della propria forza e delle proprie risorse". Nel progetto pedagogico che Copeau svilupperà nel primo dopo-guerra, la ritmica, intesa come la possibilità di "musicalizzare l'essere stesso, fin dalla profondità della sua costituzione fisica e morale", sarà "incorporata, interiorizzata" in una didattica che tiene comunque al centro la realizzazione del dramma. Fu proprio Jacques-Dalcroze che, ancora nel 1915, mise in relazione Copeau con Adolphe Appia. Alla fine - saldandosi al fascino per Jacques-Dalcroze -, è sostenibile che Appia sia il teorico che ha forse più influenzato il lavoro di Copeau. Quando incontra Copeau, Appia - che era partito da un confronto con l'"opera d'arte totale" di Wagner e segnatamente con la relazione problematica in essa fra il binomio di musica-poesia e corporeità dell'interprete nel tradizionale contesto scenico bidimensionale - ritiene che il problema di fondo della scenografia sia stabilire un materiale semplice, elementare, suscettibile di prestarsi alle infinite combinazioni dei lavoratori, degli sperimentatori...[...] è certo che attualmente solo la musica può darci una direzione. [...] Non so che parte, né che posto avrà la musica nel dramma futuro, una volta realizzato [...]. Ma sono sicuro che la musica è la nostra sola guida, per il presente, e l'unica base costante delle nostre ricerche. Come scrive, ricapitolando il proprio percorso nella Seconda Prefazione alla Musica e la messa in scena, nel 1918, Appia aveva tuttavia ben presente ch'era necessario "scoprire una specie di ginnastica musicale che servisse da legame e da intermediaria tra l'attore e la musica" e che Jacques-Dalcroze poteva offrire il germe vivace di un'arte drammatica, in cui la musica senza più isolarsi dal corpo in uno splendore dopo tutto illusorio, almeno durante la rappresentazione, e senza per altro asservirsi al corpo, lo può dirigere verso una esteriorizzazione nello spazio che gli assegnerebbe la funzione di primo e supremo mezzo d'espressione scenica, a cui tutti gli altri fattori della rappresentazione sarebbero subordinati. Finalmente, "liberando il corpo, al tempo stesso liberiamo nuovamente la musica!" e "il poeta diventerà colui che consacra l'unione divina della muscia e del corpo", quel "corpo umano" che va inteso "come mezzo d'espressione essenziale alla nostra cultura estetica", che ci invita alla partecipazione allo spettacolo, meglio quasi a "una collaborazione fraterna". In conseguenza di questo, "la struttura dei nostri teatri deve evolversi", per Appia, "verso una concezione più libera e agile dell'arte drammatica", farsi "cattedrale dell'avvenire". Come scriverà Copeau, commemorando il teorico svizzero nel 1928: "Le quinte ad Appia davano i brividi: Per lui l'arte della messa in scena nella sua pura accezione non è altro che la configurazione di un gesto o di una musica, resa sensibile dall'azione vivente del corpo umano e dalla sua reazione alle resistenze che gli oppongono i piani e i volumi costruiti. Da qui l'eliminazione dalla scena di ogni decorazione inanimata, di ogni tela dipinta, la dominante del praticabile e il ruolo attivo della luce. Di queste concezioni e dei geometrici ariosi puri spazi ritmici farà indubbiamente tesoro anche il riassetto, curato da Louis Jouvet, della scena del Vieux Colombier, dove, nel 1919, fu aggiunto un ampio proscenio un gradino più in basso rispetto all'area di palcoscenico, da utilizzarsi per certe produzioni, in particolare quelle scespiriane. Al fondo del palco, fu eretta un'ampia galleria supportata da quattro colonne. Dei gradini conducevano alla piattaforma con tre uscite verso il retropalco. [...] questa galleria poteva essere mascherata con un semplice tendaggio chiuso durante il cambiamento di certe scene. Su questo "dispositivo architettonico", che ricorda la scena elisabettiana, sebbene realizzato volutamente con i materiali freddi e severi del cemento e della muratura, e perseguito con passione da Copeau, "affinché l'attore potesse contare solo su sé stesso", il 26-27 aprile 1920, si sarebbe rappresentato un Moliére, sensibilmente declinato all'insegna della ricreazione della Commedia dell'Arte, con Le furberie di Scapino, una delle rappresentazioni più emblematiche del Vieux Colombier. Si riprendeva in realtà uno spettacolo che era stato allestito nel 1917 a New York, dov'era stato accolto più che altro con sorpresa, anche se il "Boston Transcript" del 28 novembre aveva dovuto riconoscere che "la libertà fisica e di atteggiamento" degli attori francesi "era così impulsiva che lo spettatore non poteva fare a meno di credere che molto nell'azione fosse improvvisato". Nelle Furberie del Vieux Colombier, si materializzava infatti una Commedia dell'Arte, immaginata soprattutto come ritmo e improvvisazione. Nel 1917, un testimone ricorda, infatti, che Copeau cominciava le sue prove con delle improvvisazioni finalizzate alla caratterizzazione dei personaggi e, solo allorché questi si erano fissati, veniva affidato agli attori il copione cui doveva piegarsi l'interpretazione, conservando tuttavia anche in seguito "la freschezza e la spontaneità del metodo d'approccio". Portato a Parigi, lo spettacolo perse ogni pur sommaria decorazione: "Pareti grigie incombevano su un palcoscenico essenzialmente spoglio", pur serbando l'idea di collocare un palco nudo al semplice fine di giocare sui loro differenti livelli. Si creavano, quindi, "quattro aree secondarie di recitazione chiaramente definite, che erano utilizzate come spazio di contiguità, e un'area decisamente prevalente sul trespolo che dominava le quattro sussidiarie". In un testo che già ai tempi di Moliére era sembrato una regressione alla buffoneria dei comici italiani e nel quale il servo Scapino giocava la tradizionale partita d'astuzia nel quadro del conflitto tra figli e vecchi genitori, fra ostacoli alle passioni amorose e agnizioni, Copeau si serviva dei piani e delle scale, che scandivano lo spazio rappresentativo, per restituire un teatro pressoché "atletico", rendendo "il corpo quasi più importante dell'intelligenza e della voce", sfiorando una sorta di danza scenica. Non a caso - leggiamo su "Le Ménestrel" del 7 maggio -, Le furberie erano precedute da un "prologo improvvisato" che esaltava le possibilità della Commedia dell'Arte di "conferire alla recitazione degli attori una fluidità inattesa e ai loro movimenti una libertà del tutto naturale". Così - pur senza toccare la lettera del copione - "si aiutava l'attore a vivere con piena spontaneità le emozioni e i pensieri fissati nel testo dell'autore", cogliendo l'"anima" del dramma. Nell'arduo ruolo del protagonista, Copeau aveva creato "una sorta di Proteo, che richiedeva una dozzina e più di facce e di corpi - umile servitore, abile maneggione, penitente in lacrime, vincitore ridente e attore-mimo, per citarne alcuno -, conferendo al personaggio la sua multipla personalità". La recensione di Fernand Gregh su "Comoedia" del 30 aprile, pur riconoscendo che Le furberie di Scapino risultavano "rinnovate", non solo sollevava perplessità sulle possibilità dell'apparato scenico architettonico di valorizzare il lavoro degli attori, ma rilevava in Copeau pur sempre l'affiorare del "critico sotto l'attore, peraltro eccellente e ingegnoso". Nello spettacolo, "mancava la maniera stilizzata con cui di norma si recitava questa piéce", con un'attenuazione non solo delle simmetrie, ma anche dell'allegria. Sullo stesso foglio, Maximo Dethomas sottolineava con quanta armonia i costumi si evidenziassero "con nettezza contro i muri nudi": "Callot non avrebbe saputo meglio raccontare questi napoletani" e "l'ombrello di Geronte è un sorprendente ornamento". La scena si presentava, per il resto, come un "deserto grigio", nel quale spiccava l'"unico mobile di un palchetto di legno" - nel contempo "pedana d'acrobazie e panchina per vecchi preoccupati" - "dipinto in maniera tale da confondersi con i piani verticali e orizzontali dei muri e delle gradinate". Sempre sul medesimo numero di "Comoedia", Jean-José Frappa rilevava non solo che lo Scapino "dalla parola facile e dallo spirito pronto" inteso da Copeau non sprecava le sue battute "alla maniera di un pappagallo ben addestrato", ma anche gli altri ruoli (Louis Jouvet era Geronte e Romain Bouquet Argante) recuperavano comunque "una natura e un carattere veritiero". Proprio a "Comoedia", il 27 aprile, Copeau aveva dichiarato che, sebbene l'allestimento del Vieux Colombier fosse un esperimento sulla farsa moliériana, ci si riprometteva di "mettere nella recitazione quanta più verità possibile", giacché, in quel cosmo buffonesco, si celava pur sempre "un'umanità più amara di quanto non si pensi in genere".