Il dolore espressionista Denis Bablet ha voluto individuare "la prima messinscena espressionista" non in uno spettacolo, bensì nel "celebre quadro di uno dei più grandi precursori del movimento, Il grido di Edvard Munch", nel quale Guy Vogelweith ha rimarcato un procedimento estetico del tutto analogo alla scrittura di Verso Damasco di August Strindberg prototipo dell' "Ich-drama", per il quale "la scena non è più il luogo sul quale dialogano diversi personaggi, ma lo spazio su cui si proietta un unico psichismo, quello dell'autore". Bastino questo riferimenti, sufficientemente disparati, per comprendere che non è facile né definire, né distinguere, né datare con nettezza l'affermazione dell'espressionismo teatrale in Germania ai bordi della prima guerra mondiale, per cui varrà essere un po' empirici. Si potrà così affermare che Strindberg (il quale conobbe una particolare fortuna dei paesi germanici negli anni del conflitto), insieme a Frank Wedekind (drammaturgo lanciato da Max Reinhardt), ebbe un notevole influsso sul movimento; ancora, che - sebbene il termine espressionismo non sia pressoché usato dalla critica tedesca prima del 1913.16, divenendo corrente nel 1916-17 - i primi drammi propriamente espressionistici possono essere considerati Il mendicante di Reinhard J. Sorge (1911) e, due anni dopo, Il figlio di Walter Hasenclever. Si tratta di opere largamente edipiche, di cupa rivalsa cioè dei giovani sui padri, spietati e privi di comprensione, e, in quest'ottica, è quasi emblematico che Sorge cadesse giovanissimo sul fronte della Somme, e Hansenclever affermasse in merito al suo dramma: "Questo lavoro fu scritto nell'autunno del 1913 e si prefigge lo scopo di mutare il mondo. E' la rappresentazione della lotta attraverso la nascita della vita, la ribellione dello spirito contro la realtà". Nel 1917, Paul Hatvani scriveva: "Nell'impressionismo mondo e Io, interno ed esterno si ritrovano uniti all'unisono. Nell'espressionismo l'Io sommerge il mondo [...]. L'espressionismo è stato soprattutto la rivoluzione per l'elementare". Nel 1918, Hermann Bahr aggiungeva: "L'angoscia urla forte; l'uomo urla la sua anima; nella grande tenebra, essa pure invoca aiuto, grida allo spirito: ecco l'espressionismo. L'espressionista [...] cerca di restaurare l'Uomo nella sua giusta posizione". Nell'espressionismo, il Dio Selvaggio muta in continuazione le sue maschere, mostrando ora una prospettiva caotica ora una propensione a ricostruire idealisticamente il mondo. Un ulteriore contributo all'espressionismo viene dagli artisti che si aggregarono attorno alla rivista "Der Sturm" e che - come rievoca Lothar Schreyer (fondatore nel 1918 di una Sturm-Buhne) - "portano il loro attacco da arti diverse", tra l'altro, con i drammi di pittori come Oskar Kokoschka (Assassino, speranza delle donne, 1907-10) e Vassilij V. Kandiskij (Il suono giallo, 1909-12), "intesi a realizzare in teatro l'opera sintetica". Nel 1918, Schreyer definisce l'espressionismo "il movimento spirituale di un'epoca storica che colloca l'esperienza interiore al di sopra di quella esteriore. [...] Tramite l'arte noi diamo espressione al regno spirituale. La vita spirituale non è la vita delle scienze, ma la vita delle visioni". Per lui, "l'opera d'arte scenica è un'opera d'arte che unisce e rappresenta forma, colore, movimento e suono" e, come tale, porta addirittura a esaurimento la formula stessa del teatro, ponendosi in un'ottica radicalmente ritmica ed astratta, in polemica con il materiale espressionismo registico. Carl Dahlstrom suggerisce almeno sei elementi che si possono accettare, nell'insieme, come caratterizzanti il genere drammatico espressionistico: 1) il più significativo di tutti, la radiazione dell'io, che comporta l'oggettivazione dell'esperienza interiore, il monologo e il solipsismo del personaggio; 2) l'Einfuhlung incosciente, un'immedesimazione che comporta distorsione, pantomima e caratteri onirici: 3) Seele ovvero anima aperta all'estasi e all'urlo; 4) musica; 5) ricerca di Dio e lotta con le Potenze metafisiche; 6) una sorta di "socialismo esoterico", orientato alla "ricostituzione dei valori umani". Drammi fondativi come quello di Sorge e Hasenclever, che trasmettono al movimento espressionista la peculiare ambizione di "porsi fuori e contro la borghesia mitizzata nel mondo del Padre, dell'autorità repressiva che interdice il possesso erotico della Terra (la Madre) o la realizzazione di una redenzione totale dell'uomo", intaccano a fondo la "stabilità propria dell'impianto scenico tradizionale". Infatti, la più caratteristica scenografia espressionista - che il grande pubblico ha presente, almeno a livello filmico, nel Gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene (1919) - coincide, secondo la fondamentale analisi di Ferruccio Masini, con un "sovvertimento" di ogni "topologia illusionistica" e "una rottura violenta degli equilibri architettonici". Così, elaborando nel 1923 le scenografie per La grande strada maestra, l'ultimo dramma del profeta Strindberg (1909), Ludwig Sievert, con "il punto di fuga della strada schiacciata dalle facciate delle case anonime e senza vita", crea "in apparenza un centro di gravità sul quale si ordina l'universo umano", quantunque si tratti di "un riferimento infinito da cui non discende alcun ordine, bensì solo un perenne disorientamento", doppiando lo spaesamento, coperto dalla quotidianità, dell'essere-nel mondo di cui parlerà anche Heideger. Gli interni espressionistici non sono, d'altra parte, più rassicuranti dei paesaggi: nella scenografia del 1919 di Otto Reigbert per Il figlio di Hasenclever, "l'interieur è divenuto il carcere, ma l'ambiente risulta come terremotato" e "questo sconvolgimento delle coordinate ambientali è prodotto dall'acuirsi spasmodico della percezione, una percezione dell'incubo esteriorizzata nella inabolibile fissità del quotidiano", qualcosa che "apre una frattura nel tempo da cui non è possibile evadere". La scenografia espressionista mirerà al "criterio di far recitare l'attore insieme all'attore: grazie a questo suo Mit-spielen essa diventa un "secondo Io" nel quale l'attore si sdoppia continuamente". Il figlio di Hasenclever, censurato durante la guerra, poté essere rappresentato in Germania, solo per una ristretta cerchia di spettatori, a Dresda, nell'ottobre del 1916, con Ernst Deutsch, il quale, nel ruolo dell'"adolescente espressionista", s'impose come l'interprete per eccellenza della nuova corrente teatrale. Come scrisse un critico: "Procedeva di atto in atto come in trance, immagine dell'estasi, gli occhi incavati, infiammato, guidato da una volontà superiore", anche se l'opera avrebbe trovato, due anni più tardi a Manheim, con la regia di Richard Weichart (e le scene di Ludwig Sievert), la sua vera cifra interpretativa, "in chiave di puro simbolismo". Questa volta tutta l'azione scenica ruotava sulla centralità del Figlio, grazie all'utilizzo di un riflettore mobile (impiegato di norma solo nel varietà e nel circo), condizionando la relativa disposizione degli altri personaggi. Le caratteristiche dell'espressionismo che abbiamo fin qui allineato culminano nella Trasformazione (1917-1918), primo dramma di Ernst Toller, artefice di un'"importante variazione", che introduce, nell'opera teatrale espressionistica, "una struttura socio-politica" carica di un'atmosfera onirica". Toller era, anche a livello esistenziale, uno dei rappresentanti più emblematici della sua generazione: il giovane nazionalista, volontario al fronte, che scopre l'orrore della guerra e un pacifismo,che, nel corso della sua travagliata esistenza di uomo politico e di drammaturgo, si opporrà disperatamente ai totalitarismi di ogni colore in nome di quella fratellanza umana che già era esaltata in quasi ogni pagina della Trasformazione. La trasformazione - "romanzo dell'Io in scene parlanti (come fu definito da Bernhard Diebold) - è un dramma di acceso grottesco lirismo, suddiviso nelle sei stazioni di una via crucis personale, che, in certi casi, dovrebbero essere eseguite in un peculiare "modo realistico-fantomatico, come in un'interiore lontananza di sogno". Il dramma si apre con un prologo (che potrebbe "valere anche come epilogo"), nel quale, in un cimitero e nel bel mezo di una parata di scheletri, la Morte Borghese e quella Militare disputano sul loro potere sopra l'umanità. Nella prima stazione, ambientata in "una stanza, deformata secondo l'ottica della grande città", alla luce di un crepuscolo che "annebbia forme e colorazioni", il giovane febbrile Friedrich (che cita Strindberg fra i suoi riferimenti di vita), a Natale, si arruola volontario, convinto che al fronte "lo spirito risusciterà e distruggerà tutte le piccinerie, abbatterà tutte le ridicole barriere artificiose". Così, Friedrich si ritrova in una tradotta, nella quale i commilitoni si riconoscono però bambini smarriti e tremanti. Nella seconda stazione, Friedrich è in trincea, immerso nella danza macabra dei soldati massacrati; nella terza, Friedrich, ferito e decorato, è calato nell'inferno di un ospedale da campo stipato di soldati atrocemente mutilati. Nella quarta stazione, Friedrich è stato congedato e, scultore, lavora a una statua della Vittoria, che distrugge a martellate, dopo un penoso confronto con un'invalida di guerra e con suo marito, reduce distrutto dall'esperienza del fronte; nella quinta, dopo visioni di miseria operaia e di carcere, Firedrich esorta alla fratellanza, nel corso di una tumultuosa assemblea, invitando la gioventù "dannata a micidiali inerzie" a creare la vita, incendiandola con lo spirito. Nella sesta stazione, troviamo quindi Friedrich che invoca una rivoluzione, che non significa violenza, bensì - come ha osservato Joseph Kresh - "rinascita": "Come il suo eroe [Friedrich], Toller aveva imparato dalla guerra che Vaterland (un concetto di contenuto spirituale) si era vanificato e il suo posto era stato preso in Europa da Staat, ch'egli considerò una macchina compulsiva. Un dramma dopo l'altro, Toller enfatizzò proprio questa esperienza". In prigione, fra il 1919 e il 1924, in quanto esponente di spicco della rivoluzione bavarese dei Consigli, Toller scrisse altri drammi - come Uomo massa - di impostazione umanitaria, che gli diedero un'immediata riconoscibilità e notorietà insieme alla messinscena, per oltre cento repliche, della Trasformazione (che era stata ultimata in una precedente detenzione in un carcere militare). La trasformazione era stata presentata il 30 settembre 1919 alla Tribune al Charlottenburg di Berlino, per la regia di Karl-Heinz Martin, e lo scrittore pacifista Kurt Tucholsky, presente allo spettacolo, avrebbe parlato di un teatro "del tutto nuovo", "stilizzato", per niente naturalistico: "era Toller, era una cosa seria, ci riguardava, era un pugno nello stomaco. E noi restammo in silenzio". Segno dei tempi, però, la stampa, più che riflessioni estetiche, ci offre feroci polemiche politiche: una rappresentazione della Trasformazione, per i metallurgici in sciopero, viene bloccata dalla direzione della Tribune (che pure intendeva essere un "teatro proletario", sebbene diviso fra le varie correnti della sinistra), scatenando uno scontro con il regista e l'autore in carcere, che ribadiva che il suo dramma apparteneva solo ai lavoratori. Si registrò allora uno sciopero delle comparse del teatro e la fuoriuscita di Martin dalla Tribune, che si avviò a trasformarsi in una scena commerciale. Martin, invece, sarebbe stato tra i fondatori del primo Proletarisches Theater, preludio alla febbrile attività berlinese di Erwin Piscator, negli anni venti. Proprio la preparazione a Konigsberg di una regia (poi non realizzata) della Trasformazione del troppo poeta Toller, in polemica con quella di Martin a Berlino, spinse il giovani Piscator a staccarsi da una drammaturgia espressionistica, pregna di "esperimenti personali (lirici) con elementi fatalistici (drammatici) e politici (epici)", per orientarsi verso un più esplicito e militante teatro politico, "fattore dello sviluppo sociale". Così, Piscator preparava quello che è stato definito "il più audace balzo in avanti compiuto dal teatro i Germania": la pratica di un'"arte del confronto sociale", per nulla inferiore a quella esercitata da Mejerchol'd in Russia.