Ai confini del teatro L'impegno pedagogico di Copeau era diventato pressoché totalizzante, tanto da far ritenere alla compagnia di Vieux Colombier di essere "abbandonata". Copeau era indubbiamente affascinato dall'esperienza della scuola, cogliendovi "il presentimento di un'arte nuova" e spingendosi - come altri maestri del Novecento - non solo sul terreno dell'improvvisazione silenziosa con maschera neutra, ma anche verso il fascinoso ambito del Noh giapponese "perché questa forma è la più rigorosa che conosciamo e richiede dall'interprete una eccezionale formazione tecnica". Nel 1924, un incidente impedì la presentazione pubblica di questo esperimento di teatro orientale, che Copeau pone quasi al vertice della propria esperienza, giacché, alla prova generale, "per la profondità dell'armonia scenica, per misura, stile, qualità di emozioni", gli si rivelò come "una delle ricchezze segrete della produzione del Vieux-Colombier" Un ventiseienne Etienne Cecroux, allora allievo di Copeau - e, negli anni Venti-Trenta, artefice del mimo contemporaneo, caratterizzato "da una radicale rivendicazione dell'autonomia estetico-linguistica del gesto" -, era fra coloro che assistettero a questo allestimento del Noh Kantan, curato da Suzanne Bing. Decroux restò, però, soprattutto folgorato dallo "spettacolo incredibile" di una sequenza di numeri mimico-vocali che furono presentati dagli allievi di Copeau: Era fatto di mimo e suoni. Tutto senza una parola, senza un trucco, senza un costume, senza un gioco di luci, senza accessori, senza mobili e senza scenografia. Lo sviluppo dell'azione era così sapiente da racchiudere parecchie ore in pochi secondi e parecchi luoghi in uno solo. [...] I personaggi passavano dall'uno all'altro con perfetta verosimiglianza. La recitazione era commovente, comprensibile, plastica e musicale. Nel 1924, tuttavia, il Vieux Colombier è in piena crisi e la cosa non sfugge a Piero Gobetti, che coglie l'occasione per stigmatizzare anche alcuni limiti dell'impresa di Copeau: Nulla in lui che superi la scelta fine e la diligenza dei particolari. Un lavoro sottile e nobile di interpretazione che va dalla dizione garbata alla decorazione e all'architettura dignitosa. In questo campo è difficile trovare altri più diligente e più rispettoso dell'opera d'arte. Ha voluto rivalorizzare i capolavori del teatro europeo, insistere perché nell'opera rappresentata si richiedesse un tono e un interesse di poesia. Andate ad ascoltare da Copeau La carrosse du Saint-Sacrément di P. Mérimée: è un modello di misura, di equilibrio, di fine comicità, di parsimonia. Ma siamo in un tono d'accademia [...]. Ha dimenticato che la sua arte non doveva essere di scrivere commedie, ma di pensare al teatro teatrale. C'è del vero e dell'ingiusto in uguale proporzione in questo giudizio. Tant'è che, in quello stesso anno, Copeau decide di chiudere il Vieux Colombier, trasferendosi con alcuni allievi e collaboratori a Morteuil in Borgogna e avviando rischiosamente l'attività del Copiaus fino al 1929. Nel 1926 scrive: "Credo che per salvare il teatro, bisogna uscire dal teatro", dove si celebra "un culto la cui divinità è assente". Insomma, bisogna scendere sulle strade per ritrovare il Dio Selvaggio e da qui avviare un ricominciamento, che è anche la ricostituzione di una nuova scuola in cui tutto viene "ripreso alla base": "Io mi studio di riportare [gli allievi-attori] a contatto con le forze vergini da cui nacquero il dramma tragico e quello comico", dichiarerà Copeau a Silvio D'Amico, dopo avergli spiegato che, compiuta la sua missione, l'innovazione del Vieux Colombier proseguiva "creando nuovi attori". Narra Copeau: Sono partito, dunque, senza sapere dove sarei andato. Ho corso con una vecchia Ford le strade della Borgogna. Pioveva. Tenevo tra le mani la Regola di San Benedetto. [...] Per provvedere il necessario a tutti quanti, occorreva sobbarcarci a una nuova impresa, senza capitali e senza repertorio. Eravamo circondati da un perfetto silenzio. [...] confesso di non aver fatto per questa piccola compagnia ciò che essa aveva il diritto di aspettarsi da me. Ne chiedo scusa.. Nonostante le grandi difficoltà (Cruciani parla di un periodo caratterizzato da "un massimo di realizzazione e di dissociazione"), i Copiaus vissero anche un'esperienza esaltante, nella loro gran "tinaia", ai piedi di una magnifica collina francese, oppure nella locanda del villaggio, subito affratellati con i vigorosi buontemponi delle vigne, oppure sulle strade invernali ed estive, al chiar di luna o al gelo, nei carrozzoni degli stemmi significativi, che tornano dall'aver recitato Moliére sotto un tendone o sulla pedana di una sala da ballo, dinanzi a un pubblico veramente popolare, in cui gli operai si mischiano ai borghesi e ai signori, e che, fresco come la farsa rappresentata, non aspetta che gli si faccia il solletico per ridere nei punti saporosi. [...] Così, le nostre recite, quasi a braccio, s'intonavano alle circostanze, alla stagione, alla terra, al pubblico. Erano sane, vigorose, quasi completamente deterse dalla polvere del palcoscenico. Abbozzavamo con coraggio ma incompletamente, poveramente ma con sincerità, forme più libere, più ventilate. Hanno spesso ottenuto, spontaneamente, quella adesione del pubblico, quegli attimi di comunione perfetta tra scena e platea che sono gli apici del teatro e che tanti esteti e teorici cercano di ottenere con mezzi adulterati. Mossosi nei binari di una tradizione di alta ascendenza letteraria, Copeau era giunto non solo - come si era subito ripromesso - a "spaesare l'attore", ma a lambire forme estreme di teatralità che toccavano inedite o dimenticate dimensioni esistenziali e sociali del teatro. "Come per Copeau, come per Stanislavskij - ha scritto Fabrizio Cruciani -, è a partire dalla ricomposizione del lavoro del teatro che si ritrovano le motivazioni del teatro e che il teatro diventa ancora ricerca di motivazioni".