Profeti inascoltati Rispettati e seguiti dai più accesi innovatori del teatro mondiale, quanto misero in pratica delle loro idee delle loro teorie, quanto lavoravano effettivamente sulle scene Adolphe Appia e Gordon Craig? Abbastanza poco. Diffidenze e difficoltà di ogni tipo, anche personali e caratteriali, li tennero spesso lontani dai palcoscenici. Negli anni Venti, tuttavia, Appia a Milano e Craig a Copenaghen ebbero a disposizione due prestigiose opportunità per presentare fattivamente al pubblico le loro idee. Infatti, tardi, a sessant'anni, Appia arrivò alla sua prima grande messinscena di quel Wagner da cui pure si era diramata tutta la sua riflessione sul teatro moderno. L'occasione fu creata da Arturo Toscanini che nel 1923 volle Appia alla Scala per Tristano e Isotta. Appia, dimostrando un'infallibile fedeltà a sé stesso, adatto sostanzialmente alla circostanza le scene che aveva già elaborato e pubblicato nel 1899. In quel frangente, la diffusione delle teorie di Appia fu propiziata in Italia da un saggio dell'architetto Giò Ponti sul "Convegno" dell'aprile-giugno dello stesso anno, riuscendo a suscitare un effimero, ma cospicui interesse sull'opera del teorico svizzero e un'attesa proporzionale per la sua collaborazione con l'importante teatro milanese. Si accese anche un certo dibattito sul rinnovamento della scena italiana, in rapporto alla linea europea riconducibile soprattutto a Craig e Reinhardt. Non tutti però erano a favore di tale rinnovamento e, in nome di una "plasticità latina", Gino Gori dichiarò che gli italiani "non potevano aver mai nulla a che fare col Teatro d'Arte di Mosca o col Vieux Colombier". Si trattava di riforme troppo radicali: in Germania è infatti ammissibile: "il tempio protestante nudo", impossibile nella cattolica Italia; analogamente inaccettabile era "la marionettizzazione craighiana" di fronte all'impeto sentimentale dei nostri attori e dei nostri drammi. Appia, in una sorta di appello, cercò l'alleanza del pubblico, invitandolo a forzare le proprie abitudini di fruizione della scenografia dipinta che andava decisamente abrogata. Essenziale, per Appia, era l'"Idea" di una nuova "solidarietà fra scena e sala", che andava al di là delle stesse riforme della parte visiva degli spettacoli; "Andiamo a teatro per vedere la scenografia o gli attori? L'arte drammatica è un'arte inanimata - la scenografia - oppure un'arte animata - l'attore?". Si potrebbe rispondere che sia ambedue le cose, ma "se optiamo per la scenografia, rinunciamo all'arte drammatica, che è un'arte della vita". Del resto, gli sport, la stessa società moderna "hanno ridato evidenza al corpo vivente"; si potrebbe anzi parlare di una diffusa "coscienza del corpo", che può essere espressa attraverso la pratica della ritmica. Tutto ciò si oppone all'adozione delle "tavole verticali dipinte di una scenografia" che, non avendo strumenti per competere con i lussi del cinema, deve ormai farsi una ragione che "l'arte drammatica, nella sua purezza, non esiste che a favore e per mezzo della presenza di questo corpo messo in azione". Concludendo: "L'arte drammatica vive della vita del corpo umano davanti alla quale tutto deve cedere". L'articolo di Gori era tuttavia emblematico di uno stato d'animo diffuso e lo spettacolo, in scena il 20 dicembre, dopo una gestazione tutt'altro che tranquilla per i conflitti tra l'ipersensibile e alcolizzato Appia e le maestranze della Scala, che addirittura facevano "resistenza passiva", fu salvato dalla direzione di Toscanini, mentre la critica restò piuttosto fredda (qualcuno parlò anzi di "profanazione") nei confronti della severa creazione scenica. Lasciava largamente perplessi il calvinismo (Ugo Ojetti) di una scena non descrittiva, costituita nell'essenza di sipario e palcoscenico con praticabili scalari e rari elementi architettonici quali la base della torre del castello di re Marke o la semplice faccia di una murata con terrazza. Le luci disposte dall'Appia - scrisse Carlo Gatti - o si profilano dall'alto o di fianco senza ragioni plausibili: solo perché servono qua e là per ottenere qualche buon effetto. Detto questo non si vuol negare che certe colorazioni degli sfondi non riescano gustose e che si intonino piacevolmente coi costumi degli attori (talvolta assai belli) e che la sobrietà delle linee di questi quadri scenici non giovi al gestire misurato dei personaggi. Tuttavia, uno degli spauriti sostenitori di Appia, il critico Raffaele Calzini, sul "Secolo" dell'11 gennaio 1924, si spinse a parlare di "bellissimo esperimento": Intanto... intanto nelle successive esecuzioni dell'opera, le scene di Appia non parvero al pubblico proprio così orrende, stonate, miserabili, come la prima sera: si cominciò a notare che il bellissimo giuoco plastico di gesti, di atteggiamenti, di passi, col quale nel primo atto Lotte Larsen [nel ruolo di Isotta] si eleva all'altezza di una grandissima tragica non avrebbe tanto rilievo, e così disegnati e rilevabili ritmi se la sua plasticità non si staccasse dall'elementarità di quell'unico tendaggio che forma un fondo uguale. Si osservò che la delirante attesa, l'inquieta bramosia, si adagiano divinamente nei chiaroscuri del secondo atto e che, a un certo punto (su noi scendi notte arcana...) l'atmosfera prende un bel colore viola, si smarrisce la corporeità degli amanti abbracciati, come in un quadro di Previati: e alcuni pittori notarono che il gruppo di Brangania e Isotta s'intonava sulla fine del terzo atto con atteggiamenti e luci memori niente meno che del Tintoretto o di Booklin, o di Rembrandt acquafortista. E, da ultimo, si capì che il mare può circondare con il suo fascino la morte di Tristano, essere dominante dell'azione anche se proprio non disegnato sul fondale con le barchette e con le vele o completamente visibile: e si concluse...che tutto è sbagliato, ma però c'è del buono e se la recitazione ritmica della Larsen fosse comune a tutti gli artisti, se la stessa sintetizzazione si fosse applicata contemporaneamente alle scene e, per esempio, ai costumi dei personaggi, l'illusione pittorica sarebbe stata maggiore. Pare che lo stesso Toscanini restasse interdetto dalle reazioni suscitate dallo spettacolo e, nel complesso, l'esperienza a Milano si dimostrò amara per Appia, che, tuttavia, non poté non riconoscere, a ragione, che il suo Tristano scaligero restava "senza precedenti nella storia del teatro lirico e soprattutto wagneriano". Ciò detto, dopo la fiammata milanese, l'influsso di Appia, in Italia, fu scarso o piuttosto carsico e verificabile, per esempio, nel 1927, nel lavoro di Duilio Cambellotti al teatro greco di Siracusa. Appia morirà poco dopo, nel 1928. Il 14 novembre 1926 debuttavano invece al Teatro Reale di Copenaghen I pretendenti della corona di Ibsen, nell'allestimento di Gordon Craig. Si trattò propriamente di una commissione, mediata da un ammiratore, l'attore e regista danese Johannes Poulsen, e anche "l'ultimo coinvolgimento diretto di Craig nella pratica teatrale". I pretendenti (1863), testo monumentale e a tratti metafisico, risaliva addirittura alla fase nazional-romantica del giovane Ibsen. Ambientato nel medio evo, sviluppava il conflitto, fomentato dal diabolico vescovo Nikolas, fra l'amletico reggente Skule e re Hakon, positivo paladino dell'unificazione della Norvegia, che alla fine prevaleva con il suo genio e la sua fede. Per Craig, insofferente di ogni ambientazione storica, era un copione da prendere di punta, da non illustrare nelle sue architetture d'epoca, ma da sviluppare secondo il suo "ordine architettonico" interno, "più o meno teatrale, irreale come il dramma". Pertanto, alla stampa dichiarò: "Nei Pretendenti, useremo il dialogo di Ibsen e i suoi personaggi, non la sua descrizione degli ambienti [...]. No, il dramma è un prodotto della nostra vita interiore e, sulla scena, noi creiamo un mondo per quella vita interiore". Nonostante, questa volta, operasse in una solida istituzione nazionale, anche a Copenaghen, il perfezionista Craig fu costretto a lavorare affannosamente, accantonando molto materiale preliminare e con tempi che avvertiva troppo stringenti. In fondo, Craig mal sopportava la dimensione materiale del teatro e il salto dal progetto alla sua concretizzazione quasi gli pesava; a Copenaghen, tuttavia, non realizzò una vera regia, cooperò con Poulsen, partecipando alle prove, ma in un ruolo, si direbbe, di consulente tecnico-artistico. Il teorico del principio accentratore della regia moderna doveva, una volta di più, accontentarsi. Craig puntò su "un semplice dispositivo architettonico - una struttura permanente di piattaforme che poteva individuarsi, in termini simbolici, per mezzo di proiezioni, occasionali tendaggi, lo spiegamento di elementi non illusivi e piccoli pannelli, nonché con l'uso selettivo di oggetti centrali, che esprimevano l'idea di fondo di una scena particolare". A tutto questo, andava aggiunto un diffuso "impiego creativo delle luci per esprimere, in termini visuali ed emblematici, le intime tensioni e i ritmi del dramma". Come dichiarò Poulsen, in un'intervista, Craig mirava a "rendere gli attori il principale fulcro della rappresentazione. Di grande suggestione si presentò la scena iniziale, quando all'apertura del sipario, invece della spiantata della Chiesa del Cristo di Bergen, dove sono assiepati i protagonisti e le comparse del dramma - riferisce una cronaca -, "si vede una foresta di lance levarsi verso il cielo, mentre dietro, proiettato su un ciclorama, il sogno nella luce gialla e nell'ombra bluastra ovvero una semi-smaterializzazione della cattedrale". La rappresentazione si protrasse per quattro ore e non fu propriamente un successo. Indubbiamente, "Berlingske Tiden" del 13 dicembre si sarebbe compiaciuto che l'esperienza dei Pretendenti risultasse quella della "partecipazione a una fiaba, una saga, un sogno". Dopo tutto, il dramma di Ibsen non era realistico e quindi: "Nessuna montagna in fondo, né foreste, né rustiche capanne, semplicemente il mondo: l'orizzonte spoglio...Non crediamo mai un momento di avere a che fare con la realtà". Tuttavia, a questa altezza temporale, l'estetica teatrale modernista era alquanto diffusa e Craig riscosse, quasi unanimamente, critiche puntute, ma non prive di cognizione dei processi estetici in corso: Non abbiamo nulla in contrario - scriveva Viggo Cavling su "Politiken" del 15 novembre - verso la semplificazione e la stilizzazione che Craig raccomanda e concordiamo totalmente con lui che l'arte teatrale della tradizione sia spesso offensivamente frusta. Tuttavia, se si intende stilizzare, non si può stilizzare in generale, ma solo all'interno della cornice, del tono e del milieu nei quali il dramma si colloca - come Max Reinhardt e Leopold Jessner hanno fatto in svariate occasioni con esiti sublimi. Peraltro il metodo di Craig avrebbe potuto essere applicato senz'altro con successo in questa occasione, se solo la freddezza del Nord, la durezza del medio evo, la tenebra del cattolicesimo fossero potute emergere. Invece, ci sono toccate scene composte di cubi multicolori, festoni italiani, strisce di fondali francesi, lanterne giapponesi, cancellate orientali e via dicendo. Altri critici, sulla stessa linea, richiamarono la collaborazione fra Yeats e Craig per lamentarsi dell'atmosfera pressoché anglo-irlandese impressa a Ibsen dallo scenografo, "incapace con i suoi disegni estetizzanti di esprimere il tono nordico che pervade il dramma". Al di là di ogni valutazione, l'accoglienza critica dei Pretendenti a Copenaghen permette d'individuare l'affiorare di due linee nell'affermazione della corrente modernista, che marcheranno in seguito diversi fenomeni teatrali del XX secolo: la prima, legata al rigore di una concezione estetica insieme semplificante e poetica, talora fortemente contraddittoria, espressa per l'appunto da Craig; la seconda che si rifaceva piuttosto all'esuberante eclettismo interpretativo di Max Reinhardt, con un duttile approccio ai copioni.