Il teatro di tendenza In Germania, attorno alla metà degli anni Venti, l'espressionismo teatrale, nei suoi connotati più lirici e deformanti, è in declino o, meglio, si raffredda. Anche nella messinscena - spiega Ferruccio Masini -, si impongono le procedure costruttivistiche, nelle varianti del collage e del montaggio, da un lato, e le risoluzioni allegoriche, nelle quali la fissazione del dettaglio o del frammento è il sintomo di una totalità espropriata, dall'altro, a orientare la concezione della scenografia del senso imposto dal trasferimento dell'estetica dei processi di meccanizzazione, nel quadro di una razionalizzazione che va ben oltre gli orizzonti della stabilizzazione economica. Subentra la Nuova Oggettività con il costruttivismo e il funzionalismo, una delle ricorrenti ricomposizioni dell'ordine estetico del Dio Selvaggio: questa volta, un transito dall'"allucinazione simbolico-emblematica dello spazio" espressionista in direzione di una descrizione fredda e tuttavia carica di un'insospettabile concentrazione di significati mediante la rottura delle convenzioni spazio-temporali ottenuta con la segmentazione dei luoghi e degli ambienti, con il rapporto tra azione simultanea e impasse del "discontinuo", con l'uso delle proiezioni, dei film, del fotomontaggio, dell'illustrazione e della scomposizione degli eventi nei loro nessi casuali. Tale processo implica un rimpicciolimento del gigantismo espressionistico dell'Io e un'epicizzazione più distesa e attenta agli eventi e alla storia, che non esclude affatto una nuova dimensione dell'astrazione, carica di "valori ritmici", con "la nuda visibilizzazione di figure geometriche la cui funzione strutturale è quella di organizzare l'impianto stesso delle forme reali senza salti qualitativi e trasposizioni metaforiche". Ciò si verifica negli apparati di OSkar Schlemmer, secondo Walter Gropius, "maestro-mago" di coreografie astratte geometrico-meccaniche, nelle quali si attuava "il miracolo della trasmutazione dei danzatori e degli attori, come architettura in movimento autonomo". In uno scritto del 1936 - guardando retrospettivamente a quanto di nuovo e peculiare era sorto nei grandi centri del teatro moderno in Europa e in America -, Bertolt Brecht sottolineava che Berlino aveva assunto un ruolo guida, riuscendo a esprimere "nella maniera più forte e momentaneamente più matura" una sorta di tendenza generale e di sintesi di ciò che caratterizzava il teatro moderno, per l'appunto l'epicità , che si manifestava in "tutto quello che aveva preso i nomi di dramma contemporaneo, stile scenico di Piscator, o dramma didattico". Gli anni Venti, su questa linea, sono, in Germania, soprattutto quelli dell'esplosione del teatro politico di sinistra, definizione quanto mai semplicistica, nella quale (come era accaduto, del resto, anche in Russia) si annidavano infinite polemiche e irrisolti distinguo su ciò che si intendeva come proletarioo propriamente rivoluzionario. Scegliendo di occuparci degli aspetti più strutturati del fenomeno, cominceremo osservando che non solo in Toller, ma anche in Erwin Piscator e Bertolt Brecht, la vocazione a questo genere di teatro germoglia essenzialmente dal pacifismo, conseguenza dei traumi della prima guerra mondiale e delle insanabili turbolenze della Repubblica di Weimar. A emulazione del teatro sovietico, sorsero, in tale contesto, centinaia di gruppi di agitazione e propaganda (agit-prop) e, nell'ambito di questo diffuso fenomeno, furono organizzati anche grandi spettacoli all'aperto per migliaia di spettatori. Chi intercettò e diede compiuta espressione alle istanze del teatro di tendenza, in un intenso arco di attività politica e creativa che si sviluppa fra il 1919 e il 1930 fu Erwin Piscator. Formatosi come attore classico al Hoftheater di Monaco, tre anni di trincea furono più che sufficienti per avviare la sua "metamorfosi totale" e spingerlo ad applicare "il concetto di teatro [...] a tutto gli uomini". L'espressionismo pacifista, che riusciva a mutare "il grido umano, il grido reale" in "grido artistico", risultò presto inadeguato ("una forma letteraria formale e formalistica"), da qui, per Piscator, la necessità di una svolta in senso marxista: "la necessaria comprensione del rapporto esistente tra società e arte", in direzione di un "teatro analitico-dialettico". "Il cambiamento del palcoscenico, che portò all'eliminazione del sipario e al contatto con il pubblico, rese necessario il mutamento dell'attore da interprete della concentrazione interna a oratore, commentatore, missionario di un'idea [...]. Così nacque il metodo del teatro epico". Nella sua prima regia alla Volksbuhne di Berlino, nel maggio del 1924, per Bandiere di Alfons Paquet, Piscator lanciò l'espressione "dramma epico", tentando una sintesi di arte e documento: "Dal Schau-Spiel sorse l'opera didattica. A ciò fece seguito ovviamente l'impiego di mezzi scenici provenienti da territori fino ad allora estranei al teatro". Su questa linea, Piscator organizzò inoltre complesse riviste teatrali di carattere politico che, nel luglio del 1925, culminarono, nello spettacolo totale Ad onta di tutto!, che teatralizzava le rivoluzioni successive alla prima guerra mondiale e le vicende politiche di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Si trattava, tra l'altro, di una "messa in scena in cui per la prima volta il documento politico formava l'unica base come testo e come scenario". Ad onta di tutto! fu rappresentata al Grosses Schauspielhaus - tempio reinhardtiano del dramma classico - su sollecitazione (con qualche tentennamento) del partito comunista. La messa in scena - rievoca Piscator - ebbe un carattere assolutamente collettivo [...]. Le costruzioni sceniche e la musica nascevano assieme col soggetto, e questo a sua volta nasceva assieme alla regia. Molte scene venivano studiate contemporaneamente in vari punti del teatro, prima ancora che il testo definitivo fosse stato stabilito. Per la prima volta il film doveva essere collegato insieme con gli avvenimenti scenici. [...] anche successivamente non ho mai avuto notizia che i registi russi abbiano mai impiegato il film in modo funzionale, come avevo fatto io. [...] Anche in Ad onta di tutto! il film era autentico documento [...] Le pellicole rivelavano nel modo più brutale gli orrori della guerra. Sulle masse proletarie queste immagini dovevano produrre un effetto più sconvolgente di cento discorsi. Distribuii il film nel corso di tutto lo spettacolo e, dove non bastava, ricorsi all'aiuto di proiezioni fisse. Come forma fondamentale del quadro scenico feci costruire un cosiddetto "praticabile", un'architettura a terrazze distribuita regolarmente, che da una parte era formata da una superficie obliqua, dall'altra da scale e da piattaforme e il tutto collocato sul palcoscenico girevole. Sui vari piani, nelle nicchie e nei passaggi feci costruire le singole scene. Con ciò fu principalmente raggiunta l'unità della costruzione scenica, uno sviluppo ininterrotto e senza pause dello spettacolo come un'unica irresistibile corrente. Si trattò di un ambizioso esperimento di "teatro di masse" fondato su un "enorme montaggio" di disparati documenti e scene recitate, e dato di fronte a migliaia di spettatori che divennero inevitabilmente attivi, avendo vissuto in prima persona le vicende rappresentate. In particolare, nello spettacolo, "film e scena si intensificavano con un effetto reciproco e così in certi momenti venne raggiunto un "furioso" nell'azione che non [...] era quasi mai successo di vedere in un teatro". Nonostante gli indubbi (e dispendiosi) successi, il lavoro di Piscator incontrava ostacoli e diffidenze anche negli ambienti della sinistra radicale e, dopo una rottura con la Volksbuhne, nel settembre del 1927, si avviò a Berlino, su Nollendorfplatz, un'autonoma Piscator-Buhne, attorno alla quale fu fondato uno Studio e si riunirono notevoli attori come Helene Weigel e Max Pallenberg, oltre a collaboratori del calibro di Georg Grosz e Bertolt Brecht. Costui era già ben noto per alcuni drammi di atmosfera espressionistica (fra i migliori del genere: si pensi solo a Nella giungla della città del 1921-1924) e per aver lavorato con Reinhardt in qualità di Dramaturg. Il teatro di Piscator si inaugurò, il 3 settembre 1927, con Oplà, noi viviamo! di Ernst Toller, amara parabola dell'idealista rivoluzionario al quale, dopo la sconfitta, il carcere e il manicomio, completamente spaesato, non resta che il suicidio. Il dramma fu disinvoltamente rimaneggiato da Piscator in una chiave più oggettiva, quasi filmica e, nella sostanza anti espressionistica. Il 5 settembre, su "Berliner Borsen-Courier", Herbert Ithering recensiva così il memorabile spettacolo: Questa volta, Toller ha avuto una visione del mondo. Ma per via, nel corso dell'adattamento teatrale, questo mondo ha perso la sua chiarezza. I contorni si sfocano. La lingua impallidisce. Toller è incapace di esprimere. Deforma le dimensioni. In una scena ben concepita in un albergo, vuole rendere il carattere fantastico, nervoso e senz'anima del secolo della tecnica e ci fa sentire per radio i battiti del cuore di un trasvolatore d'oceani: Toller rende romantico il mondo meccanico. La fantasia della precisione non gli basta più. Anche là, ha bisogno di "spiare i battiti del cuore". Erwin Piscator di questo romanticismo s'è liberato. Non si tira indietro. Rinsalda lo stile "sentimentale" di Toller dentro l'armatura d'acciaio del suo dispositivo scenico. Due piani a sinistra, un'area recitativa centrale, due piani a destra, questo tutto il dispositivo scenico di cuoi Traugott Muller e Piscator hanno bisogno. Questo apparato, però, con le sue pareti mobili e i trasparenti, i suoi schermi e i suoi sipari su cui, avanti e più indietro si proietta il film, risolve tutto. Le elezioni del presidente del Reich - valanghe luminose di schede elettorali sgorgano delle centine, per alcuni secondi appaiono le masse e sfilano sul fondo. Quindi, dei volti deformati, degli slogan vibrano sulla scena. Una fantasia tecnica fenomenale ha fatto miracoli. Come si integra tutto ciò con la drammaturgia? Il film (di Curt Oertel e Piscator) è di per sé fantastico, ma in relazione al dramma appare troppo esaustico. Si sarebbe ottenuto un maggiore effetto se non si fossero prese delle "fotografie da prima pagina" nell'attualità degli anni 1919-1927, in relazion con il dramma che dovrebbe integrare il film e accrescere la sua portata. Ma è il dramma che non regge. Sarebbe stato necessario procedere a una scelta perché Toller si rivela inadatto ad ancorare il film nella struttura del suo dramma. In linea di principio, il film e il teatro possono completarsi perfettamente allorché il film mette in azione i documenti, allarga l'azione, aprendo delle prospettive. Qui, talvolta si resta disorientati perché la funzione documentaria del film e la sua funzione simbolica non risultano distinte. Così, a volte il film ha un significato , a volte presenta cronologicamente gli eventi, senza che s'imponga il suo inserimento. Come ricorderà Piscatori, Oplà, noi viviamo! fu dato su un palcoscenico "alto 12 metri e con una fonte luminosa trasparente, dove sarebbe apparso simultaneamente il mondo intero", proponendosi come la prima parte di una sorta di trittico slegato: In Rasputin di Alekseij Tolstoj c'era un'enorme sfera che ruotava e si apriva in segmenti. Feci poi maricare il bravo solfato Schwejk (l'attore Max Pallenberg) su un tapis roulant, mentre George Grosz disegnò sul fondale il mondo intero e il rapporto in cui l'uomo si trova con esso. I concetti di uomo e di mondo, il concetto di simultaneità crearono anche lo stile dell'attore. Avevo bisogno dell'attore intelligente, in grado di oggettivare, dell'attore - e qui coincidono due elementi - che si avvicina alla verità platonica e anche dell'attore straniante che recita in modo da non concentrarsi soltanto sul cerchio luminoso del palcoscenico e da accogliere nella sua coscienza, anche al di fuori della luce dei riflettori, il concetto di teatro totale che il regista per suo conto implica sempre. All'adattamento delle Avventure del buon soldato Schwejk di Max Brod (l'amico di Kafka) e Hans Reimann da Jaroslav Hasek - copione che poneva la prima guerra mondiale "sotto il riflettore della satira per rendere evidente la forza rivoluzionaria dell'umorismo" con un'esaltata e chapliniana dinamica scenica che conferiva all'azione una plateale mancanza di senso ("il dissolvimento, lo sdrucciolamente di un ordine sociale") - aveva contribuito, insieme ad altri, il Dramaturg Brecht. Nel teatro politico (come era accaduto del resto, anche in Russia), la scrittura drammaturgica e la scrittura scenica si contaminavano: Rasputin da dramma di una figura storica si trasformò in "documento di un'era" e, sul testo originale di Aleksej Tolstoijm fu operata, a più mani, una lunghissima serie di sovrapposizioni. La regia si apriva elettivamente all'autorialità del collettivo ("La collettività ha naturalmente il suo fondamento nell'essenza del teatro stesso", sostiene Piscator) e John Gassner trae solo delle conseguenze quando osserva che, "se Brecht può essere definito un drammaturgo-regista, Piscator può essere altrettanto giustamente considerato un regista-drammaturgo". I due uomini si confronteranno in seguito con una curiosa mescolanza d'indubbia stima, ma anche si sfumato dissenso, poiché Brecht (che pure scrive pagine illuminanti su Piscator, nell'Acquisto dell'ottone) non avrebbe mai colto nel regista quella perfetta integrazione - in rigorosi termini di dialettica - di teatro e di politica cui personalmente aspirava. Piscator tendeva infatti maggiormente a idealizzare ("la più forte azione di propaganda politica coincide con la più forte creazione artistica"), mentre Brecht "non considerava il teatro un'istituzione morale ma un luogo di intrattenimento che produce delle conoscenze".