Epicità e dialettica In Bertolt Brecht, riscontriamo l'ultima grande transizione del teatro tedesco del primo dopoguerra: "il passaggio dal'astrazione alla costruzione d'un teatro dialettico" marxista. Nel 1925, lavorando a Un uomo è un uomo, Brecht adotta la formula "teatro epico", rendendosi sempre più conto delle difficoltà della drammaturgia moderna a restituire efficacemente i processi sociali: "Queste cose non sono drammatiche nel senso che noi intendiamo e se le si "rielabora", allora non sono più vere, e il dramma non è assolutamente più tale e se si vede che il nostro mondo di oggi non è più fatto per il dramma, allora il dramma non è più fatto per il nostro mondo". Per la stagione 1927 - 1928, Piscator annunciava intanto in dramma sul grano, che spinse Brecht, il cui retroterra politico era ancora vagamente anarchico, ad approfondire i meccanismi dei processi economici: Neppure i grandi film di Ejzenstejn, che pure esercitarono un'influenza enorme, né i primi spettacoli teatrali di Piscator, per cui nutrivo un'ammirazione non minore, mi spinsero allo studio del marxismo. [...] Fu poi una sorta di infortunio sul lavoro che mi aiutò ad andare oltre. Per un certo lavoro teatrale mi occorreva come sfondo la borsa del grano di Chicago [...]. Il criterio con cui venivano ripartiti i cereali mondiali era assolutamente incomprensibile. Da qualsiasi punto di vista, tranne che da quello di un pugno di speculatori, questo mercato del grano non era altro che un unico, immenso pantano. Il dramma che avevo progettato non fu scritto. Invece mi misi a leggere Marx, e allora, soltanto allora, lessi Marx. Soltanto allora alcune mie sparse esperienze pratiche e impressioni divennero veramente vive... Nel 1926, al Landestheater di Darmstadt, era stato intanto rappresentato Un uomo è un uomo, regia di Jakob Geis e scenografia di Caspar Neher. l'opera e la sua messinscena si pongono quindi nel percorso brechtiano in una posizione di cerniera nella transizione dell'autore da quello che può invidiarsi come un atteggiamento che si è allontanato dall'espressionismo in direzione della nuova oggettività a un teatro più pregno di ipoteche marxiste. Un uomo è un uomo si prospetta come un dramma scanzonato e cinico, all'incrocio addirittura fra il circo e lo sport, il cui protagonista sembra per l'appunto ispirato a figure di formidabili clown quali Karl Valentin o Charlie Chaplin. Vi si narra la storia dello scaricatore di Kilkoa, Galy Gay, infatti, ha incrociato un plotone di mitraglieri,che, perso il quarto uomo in un tentativo di furto in una pagoda, affinché nessuno se ne accorga, lo rimpiazza con il malcapitato. Herbert Ihering, nella sua recensione per il debutto del dramma a Darmstadt, osservava: "Perché si possa giungere a questo, egli viene smontato e rimontato di nuovo come una macchina, come un'auto [...]. Che cosa non si è declamato, in teatro e in verso, contro l'uomo macchina!". L'argomento del potere del macchinismo, nella guerra e nel lavoro industriale - retoricamente o angosciosamente o fantascientificamente toccato sia dal futurismo sia dall'espressionismo sia dalla disincantata Nuova Oggettività -, "qui è il tema di una commedia". Infatti, almeno dapprincipio, Brecht si concentra spassionatamente su una sorta di dato di fatto ovvero che, nel mondo moderno, a New York come a Mosca, stia nascendo "un nuovo tipo di uomo". Come afferma ancora, nell'ottobre del 1927, in un opuscolo per l'inaugurazione della Piscator-Buhne, per Brecht, quest'uomo è manipolabile, ma in grado di dominare e "trasformare le macchine". Galy Gay era pertanto inteso come l'essere umano intercambiabile, che diventa forte proprio nel momento in cui perde l'individualità e guadagna quella dimensione collettiva caratteristica della modernità. Insomma - come scrisse Ihering -, Brecht "non celebra il meccanismo della macchina e neppure lo maledice, ma lo dà per scontato e quindi lo supera". La regia di Geis puntò di conseguenza su un'"estrema chiarezza, luce totale, freddezza e assenza di qualsiasi umorismo dalle lacrime in tasca"; si trattava di "fare teatro piuttosto come mestiere che come arte". Il dramma passò quindi a Berlino, nel 1928, alla Volksbuhne con la regia di Erich Engel e, nel 1931, allo Staatstheater, diretto dallo stesso Brecht. L'allestimento brechtiano risentiva di un netto funzionalismo ("Tutte le parti dell'apparato scenico avevano il carattere di accessori [...] La scena era costruita in modo tale che, togliendo poche parti della scenografia, cambiava completamente d'aspetto"), ma appariva nutrito anche di suggestioni pirandelliane: "Veniva alla ribalta il direttore di scena col testo in mano e durante tutta l'azione leggeva i titoli intercalati" alle varie tappe nelle quali si snodava il dramma, la cui azione, per di più, era scandita da siparietti. Soprattutto nel 1931, era mutato o si era meglio precisato il punto di vista di Brecht: lo smontaggio dell'uomo era diventato un orrore (un uomo "smontato e rimontato", "se non lo si sorveglia dalla notte al mattino / possiamo anche trovarcelo mutato in assassino") e l'allestimento lo mostrava: "Quando a Berlino si rappresentò Un uomo è un uomo , commedia gaia del tipo della parabola, ci si servì di mezzi inusitati. Grazie a trampoli e grucce di fil di ferro, i soldati e il sergente apparivano come mostri straordinariamente grandi e straordinariamente larghi. Portavano maschere parziali e mani gigantesche. Anche lo scaricatore Galy Gay alla fine si trasformava in uno di questi mostri". Pare, tuttavia, che, pur mutato in un "dramma grottesco contro la guerra", il capovolgimento della parabola non riuscisse ancora a manifestarsi integralmente nel corso dello spettacolo, tanto che Brecht stesso avrebbe chiesto daccapo di palesarlo dopo l'avvento del nazismo, individuando ormai due tipi di integrazione dell'individuo nella sfera collettiva: quella fascista livellante e quella comunista che implicava per contro l'acquisizione di una nuova coscienza sociale. Le rappresentazioni berlinesi di Un uomo è un uomo restano comunque significative di una metamorfosi che, tra il 1925 e il 1931, investe la concezione del teatro di Brecht. Nel 1931, il drammaturgo puntò molto su una formula di spettacolo che facesse emergere le contraddizioni, anche grazie a "una nuova arte del recitare", che, nel caso del protagonista Peter Lorre, si maniferstò con un'interpretazione che, in termini voluti, non parlava "chiaramente in funzione del senso", esprimendo soltanto "degli episodi": al di là del significato particolare delle battute, si era elaborato un gesto fondamentale ben determinato che, per essere percepito, non poteva fare a meno del senso delle singole battute, ma di questo senso si valeva solo quale mezzo al fine. Il contenuto delle diverse parti era fatto di contraddizioni e l'attore doveva tentare di impedire che, immedesimandosi con le singole battute, lo spettatore s'intricasse a sua volta in contraddizioni; al contrario, doveva mantenerlo fuori da esse. Doveva risultarne l'esposizione più obiettiva possibile di un processo interno contraddittorio visto nel suo insieme. Così, certe battute particolarmente significative venivano per così dire "esposte nella luce migliore", venivano cioè proclamate ad alta voce [...]. Le battute non venivano dunque servite alla sensibilità dello spettatore, ma isolate da lui; lo spettatore non veniva guidato, bensì consegnato alle proprie scoperte. Questo gettava indubbiamente "le fondamenta di un metodo critico di rappresentazione", con il quale stava per coincidere la drammaturgia brechtiana più matura. Nell'agosto del 1928, L'opera da tre soldi, musicata da Kurt Weill, viene allestita allo Schiffbauerdamm-Theater di Berlino: nonostante il suo piglio antiborghese, il lavoro ebbe un successo strepitoso e tenne per mesi il cartellone. Diversa la reazione ad Ascesa e rovina della città di Mahagonny (ancora musica di Weill), scritta sempre su una linea ferocemente antiborghese fra il 1928 e il 1929, che sarà rappresentata a Lipsia nel marzo del 1930 e ripresa a Berlino (fra le proteste dei nazisti) l'anno successivo: L'opera da tre soldi "poteva essere presa per uno scherzo. Mahagonny faceva sul serio"; era una "messa nera" del capitalismo". In alcune note del 1931, relative a queste opere, Brecht - già impegnato nell'elaborazione di "drammi didattici" - poteva ormai delineare una puntuale teoria del teatro epico, partendo dal principio dialettico e dalla constatazione materialista che "l'arte è merce". Pur concentrandosi sull'opera musicale, Brecht stigmatizza, in queste pagine, tutto il teatro commerciale (l'"opera culinaria"), in una logica che non è meramente estetica, bensì di denuncia di un sistema che "assimila ciò che gli serve per riprodursi", sicché "lascerà passare una "novità" che porti al rinnovamento, ma non mai al cambiamento della società esistente". In Brecht, non è più, quindi, in gioco una scelta d'avanguardia, ma politica; d'altra parte: "Il teatro moderno è il teatro epico", nel quale viene meno ogni tentativo di creare un'ipnosi scenica, anche con la musica e la scenografia, che devvono assumere una funzione autonoma rispetto a un testo che, nello specifico, non deve "essere sentimentale o moraleggiante, bensì mostrare la sentimentalità e la morale". E' necessario passare quindi dall'essere al mostrare ovvero da una forma attiva del teatro ad una narrativa, che "fa dello spettatore un osservatore", privandolo delle emozioni, delle suggestioni e del coinvolgimento, ma costringendolo a delle decisioni, a studiare le situazioni che gli vengono proposte, giacché "l'uomo è oggetto di indagine", è "mutabile e modificatore". Se nel vecchio dramma d'impianto aristotelico, lo spettatore restava in "tensione riguardo all'esito", ora lo sarà "riguardo all'andamento" in una costruzione drammatica, nella quale una scena non è più in funzione di un'altra, ma "sta per sé", e l'uomo è concepito "come processo" in un contesto in cui "l'esistenza sociale determina il pensiero". Bisogna dunque imporre uno "stile epico", sostituendo soprattutto al "figurato" il "formulato", con una "letterizzazione del teatro" attraverso cartelli che scandiscono didatticamente le scene, perché "si deve esercitare lo spettatore ad una visione complessa; e, in verità, quasi più importante del pensare "nella corrente", è il pensare "al di sopra della corrente", fino ad assumere "l'atteggiamento dell'osservatore che fuma", che non si fa ammaliare dallo spettacolo. Lo scossone teorico al teatro occidentale è notevole e bene evidenziato da Walter Benjamin: "La drammaturgia dell'Edipo di Sofocle o nell'Anitra selvatica di Ibsen costituisce il polo opposto a quella del teatro epico", che può porsi sullo stesso piano della geometria non euclidea, dove "è stato tolto di mezzo l'assioma delle parallele"; in Brecht, viene eliminata per contro "la catarsi aristotelica, la scarica degli affetti tramite la partecipazione al commovente destino dell'eroe" e, "invece che immedesimarsi nell'eroe, il pubblico deve piuttosto imparare a stupirsi delle situazioni in mezzo alle quali questi si muove". Anche l'attore, immerso nel quadro di questa tecnica di straniamento, dovrà "mantenere la possibilità di uscire ad arte dal suo ruolo" perché il palcoscenico ha perso ormai ogni aura sacrale, "è ancora rialzato. Ma non è più sospeso sopra un'insondabile profondità: è diventato un podio". La teoria brechtiana, modellata sulla dialettica marxista, ha il pregio di una lucida coerenza, ma non sarebbe esistita senza l'immediata lezione di Piscator e altre manifestazioni del Dio Selvaggio del teatro novecentesco, che hanno raffreddato in schemi convenzionali o biomeccanici il processo drammaturgico e rappresentativo. Nel 1928, assistendo all'Opera da tre soldi a Berlino, Lunacarskij vi riconobbe le affinità con gli stili del nuovo teatro sovietico e Mejerchol'd, con il quale Brecht ebbe effettivi rapporti, quantunque prevalentemente indiretti, influenzò certamente il lavoro del drammaturgo tedesco. Nonostante le rigidezza didattiche (e le troppo umane ambiguità etiche), nonostante il crollo di popolarità parallelo alla caduta del comunismo (inevitabile quanto immeritata penitenza dopo decenni di devote regie all'insegna di buoni sentimenti ideologici, ma spesso del più astuto masochismo borghese), la ricchezza della drammaturgia di Brecht, la sua carica di disincantato umanismo e l'oggettività delle sue tecniche stranianti, che, con differenti declinazioni antiretoriche, si sono ormai infiltrate in ogni genere di interpretazione scenica, restano oggi un patrimonio assoluto dello spettacolo moderno, in nulla inferiore - anche se al drammaturgo sarebbe forse dispiaciuto - all'eredità dei più imponenti classici del teatro universale.