Torniamo, dunque, dopo questo inciso - che ci è sembrato, però, utile per puntualizzare le questioni che stiamo affrontando - al ruolo di Craig nella trasformazione dei linguaggi della scena da materiale a scrittura. Questi, nel 1905, scrive un breve testo in forma di dialogo, a poco più di opuscolo, che ha, però, l'esito di una bomba, mettendo in discussione, in maniera drastica e senza mezzi termini, la concezione teatrale vigente e schiudendo al teatro le porte della modernità. The Art of the Theatre può rappresentare, se vogliamo cercarlo, il primo documento in cui appare il concetto di scrittura scenica, anche se il termine non vi viene ancora formulato nella sua forma letterale. Qual è la posizione espressa da Craig in questo scritto? La tesi che vi sostiene è la necessità di tornare a fondare il teatro sulle sue autentiche e specifiche radici linguistiche, le quali riguardano il complesso della sua dimensione rappresentativa. Alla base di tale sforzo teorico vi è, indiscutibilmente, la nozione wagneriana di Gesamtkunstwerk, con una non poco significativa distinzione, però. Lì dove Wagner parla, infatti, del teatro come della sintesi di arti diverse, le quali, ognuna col suo ambito di pertinenza semantica, vanno a costituire il linguaggio teatrale, Craig, invece, pensa ad una specificità del codice linguistico del teatro, i cui riferimenti non sono più le arti in sé, quanto gli elementi che le costituiscono. L'arte del teatro, così, finisce per essere definita come la "sintesi di tutti gli elementi che compongono quest'insieme: di azione, che è lo spirito della recitazione; di parole, che formano il corpo del testo; di linea e di colore, che sono il cuore della scenografia; di ritmo che è l'essenza della danza." Inteso in quest'ottica il teatro risulta essere una cosa diversa e distinta dalla messinscena di un testo, in quanto la sua scrittura consiste nel gioco combinatorio di un insieme di segni - che sono, nella logica craighiana, segni visivi in quanto recepiti dallo spettatore attraverso lo sguardo - che ne rappresentano non solo la veste formale ma anche la natura sostanziale. Che non si limitano, cioè, ad illustrare od arricchire un significato drammatico che è contenuto altrove (e più precisamente nella pagina), ma lo determinano essi stessi. E', evidentemente, questo il passaggio cruciale, dal punto di vista concettuale, alla nozione di scrittura scenica. Non siamo più di fronte, infatti, al semplice uso creativo della scena e dei suoi materiali, né è prevista una dialettica tra scrittura drammatica e scrittura scenica come due entità distinte. L'idea di teatro che ha Craig si posiziona, invece, in quell'orizzonte di senso che la semiotica, come abbiamo visto, disegna quale testo spettacolare. L'opera d'arte teatrale è un testo scenico scritto attraverso la fusione dei diversi elementi che ne costituiscono la base linguistica. In realtà l'argomentazione di Craig procede per gradi e tende a sancire la centralità del regista nel processo creativo del teatro. Si propone, anzi, come una vera e propria teoria della regia, anello di congiunzione e di distinzione, tra un certo modo interpretativo di intenderla la regia ed un altro - che sembra diventare pensabile nel corso del Novecento proprio a partire della teoria craighiana - che ambisce, invece, ad istituire un codice teatrale assolutamente autonomo ed indipendente dalla dimensione del testo letterario. In un primo momento, infatti, Craig parla ancora, nel dialogo del 1905, del lavoro del regista in rapporto al testo. E' un rapporto molto dialettico e libero, quello proposto da Craig, nulla a che vedere con la esatta comprensione della lettera del testo sostenuta da Stanislavskij, o con l'identificazione con l'intenzione drammaturgica che emerge dalle parole di Antoine. Quanto propone Craig, fin da questa fase iniziale del suo ragionamento, è lo scambio tra due autonome intenzioni artistiche, quella dello scrittore e quella del regista, ognuna delle quali ha una sua specifica autonomia, che mette in gioco nel rispetto della competenza dell'altro. Così, se il regista non interverrà a manipolare la materia dialogica, la parola poetica, conservandola integra nella sua stesura, alla stessa maniera pretenderà che il drammaturgo non si immischi nella sua sfera di competenza, la scena, attraverso il mezzo improprio della didascalia. Quella particolare annotazione della scrittura teatrale che, giustamente, Craig riconduce alla dimensione di regia potenziale, con la pretesa, da parte dello scrittore, di ridurre il regista al ruolo di mero esecutore. Una volta stabiliti come distinti i campi di competenza, sta al regista, però, istituire un ponte, quel livello di scambio che consente di trasformare la struttura poetica di un testo in progetto di teatro. Detto in altri termini è come se Craig spostasse la dimensione drammaturgica del teatro, vale a dire quella che relaziona la parola all'azione, dalla pagina dello scrittore, e quindi, ripetiamolo, dalla sua intenzione a quella del regista. Di fronte al testo poetico il regista, infatti, si pone in una condizione attiva. Lo legge, scrive Craig, ne ricava una sua impressione e "comincia a vedere il colore, il ritmo, l'azione dell'insieme". Immette, cioè, fusione, dialettica, scambio tra tutti gli elementi che compongono il linguaggio del teatro. In tal modo la "lettura" diventa interpretazione attraverso gli apparati linguistici della scena e il testo va ad assumere un suo "nuovo" specifico significato drammatico. Non più quello che porta virtualmente racchiuso in sé e che gli ha trasmesso lo scrittore, ma quello che gli ha saputo infondere il regista. Procede, quindi, il regista a dare corpo alla visione scenografica (la quale dovrà essere essenziale, schematica e sostanzialmente non realistica), alla partitura della luce, ai costumi (anch'essi legati più all'atmosfera del dramma che ad una realtà storica) e, quindi, alla presenza del'attore. Quest'ultimo, tra tutti i segni della scena, è quello che appare a Craig, già in questa fase, il più difficilmente recuperabile alla dimensione artistica dell'insieme ma, contrariamente a quanto scriverà due anni dopo introducendo quella immagine così affascinante ed ambigua che è la Ubermarionette , adesso crede ancora nella possibilità, anzi, nella necessità della presenza dell'attore in scena. Come segno tra i segni, però, non come corpo estraneo, portatore di una scrittura autonoma. Ogni qualvolta Craig parla dell'attore, infatti, lo fa inquadrandolo nel complesso dell'azione senza fare mai riferimento alla sua dimensione di interprete del personaggio, sia essa improntata all'immedesimazione che, diversamente, rivolta allo straniamento. Attore e testo, così, si trovano ad essere inglobati dentro una vera e propria scrittura di scena che li comprende, li organizza rispetto agli altri elementi linguistici e, sostanzialmente, li risignifica, in quanto ne definisce l'identità drammatica in relazione ed in dipendenza della visione scenica dell'insieme. Questo modo di intendere la regia è riferito, però, da Craig ancora ad una condizione di "mestiere". E' visto, cioè, come una pratica che non mette in gioco la autentica dimensione artistica del teatro, ma si ferma al livello artigianale del "saper fare". La presenza di un testo, anche se ridisegnato scenicamente, infatti, fa sì che la scrittura del teatro resti pur sempre una scrittura applicata, non autonoma, non libera e, in quanto tale, non artistica. Siamo già in presenza, evidentemente, di quelle condizioni che ci consentono di parlare della scena come di una scrittura ma, secondo Craig, è necessario che la scena si riscatti del tutto e agisca, creativamente, da sola, senza dover contrarre debito alcuno, foss'anche piccolo, con l'ambito della letteratura. Di qui la proposta "scandalosa" dell'eliminazione di un testo letterario di riferimento, per giungere, finalmente, a proporre, per la creazione del teatro dell'avvenire, l'uso come soli materiali linguistici d'azione, scena e voce. E' l'affermazione conclusiva del dialogo del 1905 a sancire, direi in una maniera di ineguagliato rigore e precisione, i postulati della scrittura scenica quale progetto di teatro, oltre che quale codice. Quanto vi si individua con chiarezza è, infatti, la netta distinzione tra scena come materiale linguistico e scena come scrittura. La prima, infatti, non è che uno degli elementi del linguaggio che il regista si trova ad utilizzare: "Quando dico scena - scrive Craig - mi riferisco a tutto ciò che è visibile, tanto all'illuminazione e ai costumi, quanto allo scenario". La scrittura di scena - pure se, ribadiamolo ancora, Craig non fa uso del termine - indica, invece, la composizione dell'opera, da parte del regista, non solo attraverso la scena, ma anche attraverso l'azione e la voce. Col primo dei due termini si fa riferimento a "gesto e danza, prosa e poesia del movimento", intendendo così inglobare, in maniera strutturata ed organica, la partitura d'attore tra quelle di pertinenza registica. L'attore è il suo corpo in relazione allo spazio. la sua è una presenza coreografica. Più complesso, o più semplicemente meno chiaro, il riferimento alla voce, tra i materiali della scrittura registica. Se l'attore/azione suggerisce, evidentemente, una strutturazione coreografica dello spettacolo - e il ciclo di disegni di Steps (1905) ci aiuta a comprendere come questo possa tradursi in evento drammatico e non solo visivo - cosa vuol dire che vi saranno, nel teatro dell'avvenire "parole parlate" o "cantate, in opposizione alle parole da leggersi"? Per comprendere cosa Craig intenda dire dobbiamo fare un passo indietro nel suo ragionamento, quando propone l'abolizione del testo letterario. Intendeva Craig la sparizione della parola a teatro? Guardando sempre ai disegni di Steps e all'idea del Drama of Silence che li accompagna e li motiva si dovrebbe supporre di sì. Eppure, se c'è una voce, la parola, in qualche forma, continua ad essere presente anche nel futuro preconizzato nel dialogo del 1905, quasi che Craig non riuscisse ad immaginarsi un attore totalmente muto che affida al movimento tutte le sue potenzialità espressive. Ma cosa intende dire quando distingue nettamente tra una parola nata per essere letta ed una destinata ad essere detta? E' difficile immaginare tale distinzione su di un piano strettamente terminologico, quasi che Craig voglia alludere a due distinte nature del fatto verbale, diverse le cose appaiono se affrontiamo l'affermazione di Craig da un'altra angolazione. Allora potrà risultare, forse, che la parola destinata alla lettura è quella che sedimenta in un testo che si dia come progetto letterario di un possibile teatro; quella destinata alla dizione, invece, è una parola che non pretende di farsi essa stessa teatro ma che si inserisce dentro un contesto scenico che la accoglie e la significa. Si tratterebbe, allora, di una parola che potremmo definire "scenica" e che, con scena ed azione, va a definire i confini di una scrittura tutta e solo teatrale, non più debitrice della matrice letteraria. Alla fin fine ci veniamo a trovare in una situazione simile, dal punto di vista teorico: il teatro, in quanto arte autonoma, presuppone come suo codice fondante quello di una scrittura complessiva, gestita da una figura che continua a corrispondere a quella del regista, anche se le suo funzioni si sono dilatate, che costruisce l'opera attraverso l'uso di materiali linguistici diversi, scenici, verbali ed attorici, i quali anzitutto risultano sostanzialmente equivalenti tra loro e poi non possono pretendere di assolvere in nessuna misura da soli ala dimensione artistica della scena. E' questo ciò cui fa riferimento Craig quando parla della necessità di ricondurre nuovamente, come accadeva alle origini, il teatro entro l'ambito della visione. Non privilegiare gli elementi scenografici, come pure il suo insegnamento è stato inteso, ma fare della scena il luogo di scritture simultanee che si incontrano su di un piano superiore di scrittura, quella che, in seguito, verrò chiamata, appunto, la scrittura scenica. Esaminata la questione in termini strutturali ci troveremmo a dire che per Craig il teatro è costituito da tanti codici diversi - visivi, poetici, attoriali - i quali si organizzano in un codice dei codici che è la scrittura scenica. E che tale impostazione della strutturazione del linguaggio, che tale codice, va inteso, anche, come un progetto di teatro, come modalità, cioè, di pensarlo e di realizzarlo, il teatro. Con conseguenze, si badi, non solo sul piano della consistenza materiale dello spettacolo e della gerarchia dei ruoli (a chi spetta la parola definitiva tra regista e scrittore), ma anche su quello della produzione di senso del linguaggio teatrale. Uno spettacolo in cui il fattore scenico sia assolutamente predominante non comporta solo che l'azione agita conta di più di quella raccontata ma, forse, che la configurazione stessa, il modo di organizzarlo, il racconto, o addirittura la sua stessa esistenza, siano messi in forse. La scrittura scenica, fin dai presupposti teorici che le affida Craig, assume un ruolo di portata straordinaria: impone un modo di ripensare il teatro dalle fondamenta dei suoi statuti. Sia di quelli linguistici che di quelli comunicativi. Sia di come una cosa la si dice che del cosa stesso, del "dicibile" drammatico.