Torniamo, adesso, alla specificità della scrittura scenica all'interno del teatro delle neoavanguardie. Prima di addentrarci nel dettaglio delle pratiche linguistiche ci interessa soffermarci su alcune questioni preliminari. Negli anni Sessanta si assiste ad una generale tendenza insurrezionale, che attraversa le arti tanto quanto i comportamenti sociali. E' una tendenza che aspira a riconsiderare le disposizioni gerarchiche, le istituzioni linguistiche, la nozione stessa di arte. C'è una spinta a rompere i confini espressivi, a tentare una contaminazione diffusa tra le arti e tra arte e vita, a delegittimare la nozione stessa di opera. In teatro questo atteggiamento ha risvolti particolarmente clamorosi. Quando il Living Theatre, Brook o Grotowski propongono (i primi temporaneamente il terzo stabilmente) di rinunciare allo spettacolo e di cercare le radici del teatro in uno scambio col pubblico che è antropologico, prima che estetico, la frattura che essi introducono con la nozione convenzionale di teatro sembra essere veramente insanabile. D'altro canto fenomeni come l'happening, la performance, il teatro di strada rappresentano altrettante occasioni per rimettere in gioco gli statuti linguistici della rappresentazione, come, d'altronde, proposto, in un regime di riferimenti più mentali, dal teatro concettuale. Accade, insomma, che le neoavanguardie non solo mettano in discussione gli statuti linguistici, ma l'identità stessa del fatto teatrale. Come, d'altronde, ne ridiscutono i ruoli sul piano creativo. La creazione collettiva, il lavoro di gruppo, il rifiuto delle gerarchie professionali non sono solo interventi sulla geografia sociologica e produttiva del teatro, ma hanno riflessi importanti anche sul piano delle scelte linguistiche. Guardiamo, d'altronde, un attimo alle date: i libri di Bartolucci e Kostelanetz sono del 1968, anno fatidico non solo per la contestazione, ma anche per il teatro. L'anno di Paradise now, tanto per fare il titolo di uno degli spettacoli più straordinariamente innovativi del Novecento. Una data che non è un caso, ma rappresenta, in una sintesi quasi simbolica, le tensioni ad un rivoluzionamento dei codici che parte dal linguaggio e sconfina nel sociale. E' comprensibile, allora, quanto la regia sembri, in quel momento, anche sul piano teorico, distante. Tanto più perché il teatro di regia è tutt'altro che un fenomeno chiuso, anzi, è vivissimo ed è andato ormai ad occupare un posto centrale nello scacchiere del potere teatrale, perdendo, così, quel valore di frattura e di innovazione che aveva sul suo nascere. Così appaiono lontane (magari un po' meno) anche le sperimentazioni della drammaturgia (quelle riferibili, schematicamente, al Teatro dell'assurdo), perché ancora agite all'interno di quella pagina che sembra essere prima ancora che un fatto linguistico, un centro di potere. Tenere a mente questi riferimenti è importante per comprendere appieno quale fosse il substrato culturale da cui germina la nozione di scrittura scenica come modello di teatro: proposta di una rivoluzione linguistica che vuole essere anche politica. Nel tempo, nel giro in fondo di pochi anni, quella tensione alla opposizione ideologica verso l'istituzione sociale e linguistica del teatro tese a stemperarsi ma la qualità specifica di quel codice e di quel modello di teatro si confermarono, testimonianza che, pur all'interno di una serie di consonanze e di possibili scambi, la scrittura scenica restava, comunque, un atteggiamento specifico verso il linguaggio non sovrapponibile o confondibile con nessun altro. Noi ci riproponiamo di entrare dentro il groviglio concettuale che tale situazione culturale produce, per cercare di scorgere il funzionamento di quel codice e vedere se quei meccanismi di funzionamento non ci consentano, alla fine, di parlare di un vero e proprio teatro di scrittura scenica, con sue caratteristiche epocali, con sue strategie linguistiche, con una sua sostanziale riconoscibilità, quella che ci fa parlare, in genere, dello stile di un'epoca o, più in generale, di un suo approccio al linguaggio. Per far questo abbiamo avuto come riferimento le due "ragioni", le due intenzioni che sembrano costituirne le fondamenta: da un lato decostruire la struttura linguistica del teatro (non solo quella del teatro=parola ma del teatro in sé), dall'altro istituire una nuova grammatica della comunicazione teatrale. Si tratta di due momenti che agiscono tra di loro in una continua tensione dialettica, vale a dire che li troviamo presenti costantemente entrambi a delineare la qualità specifica della scrittura scenica sul piano linguistico. Una simile tensione dialettica non è leggibile solo, infatti, lungo l'asse diacronico degli avvenimenti (forte, cioè, negli anni Sessanta quando si afferma come attacco allo statuto istituzionale del linguaggio e poi, via via, più stemperata), ma anche come una sorta di elemento costante, di presenza che caratterizza l'uso della scena come linguaggio nel complesso del teatro della seconda metà del Novecento. In esso, infatti, parla da un lato la lingua della decostruzione, quella che tiene il linguaggio in uno stato di continua tensione, lungo una linea di frattura che nega lo spettacolo alla rappresentazione, dall'altro quella di una costruzione fondata su nessi linguistici tipicamente scenici. Costruire nella decostruzione, ci è piaciuto dire parlando di questo particolare atteggiamento nei confronti del linguaggio, a significare di una costruzione che, pure quando cerca l'ordine, non lo fa riproponendo la rappresentazione, pure quando si cimenta con il testo sfugge alla messa in scena, pure quando accetta la classicità delle forme moderne lo fa con un'insita tensione al limite. La scrittura scenica, nel secondo Novecento, sembra potersi ricondurre alla condizione di un codice la cui caratteristica è da un lato quella di stabilire nuovi principi compositivi, nuove priorità tra pagina e scena, nuove specificità per la messa in scena e, dall'altro, quella di tenere il linguaggio in uno stato di tensione permanente, ridisegnandone di continuo i confini e mettendo in crisi la coerenza narrativa della fabula drammatica.