Il tipo di azione è tale da concentrare l'attenzione su una ridefinizione percettiva del luogo scenico. Il quale non funge da contenitore ma è parte integrante dell'azione: "Eliminato quasi completamente l'arredo scenografico - scrive Silvana Sinisi - sostituito per lo più dall'intervento dinamico e immateriale delle luci, diapositive e filmati, utilizzati soprattutto in senso oggettivo e distanziante, l'attore si affida alla concretezza dei propri materiali operativi: il suo corpo e la ricognizione dello spazio assunto come entità fisica e termine oppositivo di confronto". Il gesto è tale perché indica uno spazio, l'azione è tale perché vi interviene tracciandone le dimensioni. La scrittura della macchina attore-spazio, poi, viene sottolineata ed integrata da un'illuminazione fatta di tagli, riquadri, sezioni, che smonta l'interezza del quadro scenico. Gli "studi per ambiente" rappresentano, dunque, uno strumento analitico per dissezionare la scrittura scenica nelle sue componenti portanti. Il teatro viene ridotto alla verifica di diverse possibilità di scrittura del tempo e dello spazio, con un evidente rifiuto di ogni produzione di senso sia narrativo che simbolico. le azioni che ci vengono mostrate non vogliono dire altro al di là dell'interrogazione che ci pongono sulla posizione del corpo nello spazio. Il rapporto, mediato dalla matrice concettuale, con l'happening è evidente. Ma l'assenza di significazione dell'happening implica ancora l'accadere di qualcosa. Semplice, elementare, privo di spessore simbolico o narrativo, ma pur sempre qualcosa. Nell'happening, insomma, siamo di fronte ad azioni che occupano uno spazio ed un tempo (e non intendono presumere altro), negli "studi per ambiente", invece, assistiamo direttamente all'azione di occupare un tempo ed uno spazio. La linea di demarcazione è sottile e consiste proprio in un approccio al linguaggio che è diventato concettuale e non più solo performativo. L'importanza dell'happening, quale memoria di questo ulteriore processo di decostruzione del linguaggio che è il teatro analitico. "Considero l'happening - dichiara Simone Carella - l'ultima frontiera drammaturgica, la più contemporanea, la più importante". Qualcosa che, insomma, ha creato le premesse all'esigenza odierna di disarticolare il linguaggio nelle sue forme più estreme. Carella lo fa riallacciandosi alla tradizione del teatro astratto di memoria futurista. Dalla scena viene cancellato perentoriamente l'attore a che la scrittura scenica divenga essa stessa protagonista, nel dissezionamento analitico dei suoi elementi, dello spettacolo. "Eliminata ogni presenza fisica concreta - scrive Sinisi a proposito di Autodiffamazione , il primo esperimento compiuto da Carella in questa direzione - ad eccezione di una sedia vuota collocata su una pedana, vera protagonista dell'accadimento scenico diviene la luce analizzata in tutte le sue possibili modalità di impiego come misura del tempo ed elemento attivo che modifica e scompone lo spazio". "Ciò che conta - aggiunge Sinisi - in prima istanza, non è tanto l'esecuzione, quanto l'idea che sta a monte dell'operazione". La scrittura scenica, infatti, viene ridotta da Carella al livello di investigazione dello spazio attraverso la fonte luminosa, di modo da realizzare un evento, un avvenimento scenico, come semplice processo di trasformazione dello spazio-tempo. La scrittura scenica, seguendo l'insegnamento di Prampolini, diviene essa stessa attrice, protagonista unica dello spettacolo. Non più semplice oggetto essa si fa tramite per decostruire concettualmente la "datità" del fatto teatrale. Il processo di decostruzione analitica del linguaggio può, però, investire non solo l'ambito lessicale primario della scrittura scenica, come abbiamo sin qui osservato, per rivolgersi, invece, con attitudine analoga, anche al momento narrativo e drammaturgico. Avremo, in tal caso, una struttura rappresentativa smontata nei suoi elementi portanti. Si tratta, in tal caso, di sottoporre il regime del racconto, attraverso un uso analitico della scrittura di scena, ad un'opera di depotenziamento, di messa in sospensione delle sue finalità narrative ed emozionali. Michael Kirby, accanto all'esperienza di storico e teorico delle avanguardie teatrali, compie una serie di esperimenti scenici proprio in questa direzione. L'idea è di affrontare tipologie e generi narrativi fortemente codificati e connotati, attraverso una costruzione scenica che ne evidenzi i tratti costitutivi (sul piano drammatico) non finalizzandoli, però, all'esito di un racconto. Lo spettacolo, così, si risolve in una sequenza di scene che mettono in evidenza i nessi strutturali del modello narrativo, lasciandoli straniati allo stato di strutture pure. Che si fermano anch'esse, dunque come accade nel teatro concettuale più performativo, ad uno stadio presemantico, non introducendo ad un senso narrativo o simbolico secondo. "Separando la struttura - scrive Kirby - separando gli aspetti formali dagli aspetti emotivi e contenutistici - anziché far sì che gli uni sostengano gli altri, come avviene nel teatro tradizionale, e che gli uni si colleghino agli altri - tali aspetti si irrobustiscono a vicenda". Il segno formale, quindi, non si accompagna a quello narrativo, ma lo disarticola, lo mostra e lo cancella allo stesso tempo. In Double Gothic , ad esempio, il termine di riferimento, il genere utilizzato era il noir, con le sue atmosfere gotiche. Lo spettacolo è composto di una serie di sequenze che suggeriscono il tipico clima di attesa e di suspense determinato dall'arrivo in un luogo inquietante, il castello di una misteriosa scienziata, con la protagonista femminile accolta da una sorta di inserviente. La stessa situazione viene riproposta più volte secondo modi e soluzioni narrative e sceniche diverse. La ripetizione fa sì che il racconto non vada mai avanti, che non proceda, ma resti sospeso: negato sul piano drammatico ed utilizzato, invece, per concentrare l'attenzione dello spettatore sulla dinamica spazio-temporale dell'evento teatrale. Una dinamica che riguarda la percezione, ma l'emozione anche, dello spettatore. Il risultato è un'azione che viene enunciata, ma non sviluppata, così che da racconto si traduca in semplice situazione drammatica. E' un risultato questo, a ben vedere, che già Beckett perseguiva nei suoi testi, dove il dramma vi è offerto sempre in una forma decostruita, e la tragedia, o quanto meno la tragicità, è data come mancante, assente. Non solo perché scritta attraverso il registro del grottesco e del comico, ma anche perché l'andamento narrativo del testo è lasciato sospeso nei suoi elementi strutturali costitutivi. Questo risulta particolarmente chiaro nella produzione degli anni Sessanta. Quando, in lavori come Dondolo, Improvviso dell'Ohio, o anche Un Pezzo di Monologo, la costruzione dell'azione è tutta risulta in un frammento di situazione - con il personaggio colto in una scheggia indiscernibile di vissuto mentre è impegnato in un torrenziale monologare senza inizio né fine - è evidente come essa venga data come scomposta, decostruita sul piano strutturale in maniera irrecuperabile. L'ossessione alogica del discorso di questi pezzi è il risultato ultimo di un processo di azzeramento semantico già presente ai tempi di Aspettando Godot. Quel poco di racconto che allora restava, quel tanto di situazione e di ambiente, era sottoposto da Beckett ad uno spietato trattamento analitico. La stessa scansione dello spettacolo in due atti serviva a Beckett per poter agire direttamente sulle strutture, sugli elementi costruttivi dell'azione. I due atti sono l'uno lo specchio dell'altro. A cominciare dall'indicazione scenografica dell'albero spoglio, nel primo, che troviamo ricoperto di foglie nel secondo. Per il resto, l'apparizione di Pozzo e di Lucky, il tentativo di suicidio, l'arrivo finale del bambino e gli stessi discorsi dei due personaggi, tutto trova una precisa corrispondenza simmetrica nelle due metà del testo, a suggerire che siamo di fronte a due segmenti di un tempo infinitamente replicabile. Che non c'è racconto, nel senso di evoluzione e sviluppo, ma solo presentazione di una stessa situazione in due possibili varianti. L'insegnamento di Beckett è fondamentale per comprendere il progetto di decostruzione drammatica, sul piano della scrittura scenica, di cui stiamo parlando. La sua idea di un dramma sospeso, di una tragedia negata, non può essere in nessuna misura relegata esclusivamente nell'ambito della letteratura teatrale. Se lì la forza e l'influenza del modello beckettiano è evidentissima, dovremo imparare a riconoscerla anche all'interno della realtà scenica. E questo, d'altronde, a rispettare, anche, l'attitudine particolare, quale autore teatrale, di Beckett che non è stato mai uomo solo di pagina. Nel caso di un autore come Kirby, allora, è come se la decostruzione analitica dell'azione - che in Beckett è saldamente ancorata ad una visione filosofica del mondo, ad un sentire e ad un pensare l'uomo - venisse risolta tutta e solo sul piano delle strutture formali. Se emozione c'è, come fa capire Kirby, si tratta di un'emozione di superficie, quella, giustappunto, che può provenire da un "genere". Ma anche nel caso di una scelta performativa, come quella compiuta da Tiezzi in Presagi del vampiro e in Vedute di Porto Said. C'è una significativa , quanto curiosa, ombra beckettiana a tinteggiare il rigoroso bianco e nero semantico dell'azione. Alla radice di un impianto scenico, giocato sulla rigida definizione di luogo che condiziona e limita l'azione, lasciandola sospesa al di qua di ogni possibile significazione vi è, accanto ai riferimenti visivi già enunciati, anche una particolare lettura di Beckett. Una lettura tesa ad evidenziare già allora, come Tiezzi farà in seguito Aspettando Godot, Finale di Partita e Come è, la dimensione analitica della drammaturgia beckettiana. Se la scrittura scenica continua ad essere - nella seconda metà del Novecento - portatrice di quelle ragioni di fondamento linguistico che ne avevano caratterizzato l'affermazione nella prima metà del secolo, si connota, però, adesso anche quale opposizione nei confronti del linguaggio, nel senso che agisce come fattore perturbante nei confronti della costituzione materiale (e concettuale) dell'opera d'arte teatrale, nei confronti di quelle stesse caratteristiche di linguaggio che aveva concorso ad istituire, mettendole in uno stato di costante instabilità. E' in questo che consiste quella che si è piaciuto chiamare strategia della decostruzione che passa, come abbiamo potuto constatare, attraverso tre distinti momenti: il rifiuto della rappresentazione, la autonomia, sul piano espressivo, dei diversi elementi che compongono lo spettacolo e, infine, la contraddizione della stessa forma teatro, avviando un processo che produce un'estensione pressoché illimitata dell'ambito del teatrabile (di ciò che può farsi od essere definito teatro) e, di contro, una contraddizione forte all'interno della nozione di specifico linguistico. Avevamo incontrato qualcosa del genere già nei discorsi di Schechner sull'Enviromental Theatre, ad esempio, o nel caso dell'happening, ma è un principio più generale che ricorre insistentemente nel teatro contemporaneo, in forme ora più o meno estremizzate. E se è segnale di una, forse tardiva, forma di contestazione verso lo statuto teatrale, esprime, però, al tempo stesso, una forte tensione ideale, che possiamo ricondurre ad una concezione dell'arte tipicamente moderna. Tale concezione, che è propria, in particolare, delle arti visive, propone il superamento della condizione oggettuale dell'opera, la liberazione del pensiero creativo da ogni vincolo di forma e di materia, l'estensione dei confini dell'estetico ben oltre i limiti angusti dell'artistico, delle forme istituzionali dell'arte. L'azione di decostruzione che la scrittura scenica va ad operare dentro il linguaggio teatrale può essere letta in una prospettiva analoga. Da strumento per accedere ad un livello espressivo meno condizionato e più libero, ad un livello di creatività squisitamente teatrale, il processo di decostruzione che passa attraverso la scrittura di scena può essere concepito come soglia per accedere ad una sostanziale dissoluzione dello specifico linguistico, come tramite per superare la riconoscibilità materiale dell'opera d'arte teatrale. Ciò che resta, in questo caso, è una sorta di scrittura disincarnata, di scrittura assoluta. La scrittura è il processo, la dimensione di un linguaggio continuamente in fieri, mai fermo, mai riconducibile alla condizione di oggetto. Ogni forma compiuta, ogni spettacolo, non può che testimoniare del suo limite della sua inadeguatezza. E' da questa angolazione, ad esempio, che Achille Mango guarda alle dinamiche che hanno attraversato la ricerca teatrale tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, prediligendo quelle forme che più agivano in direzione della cancellazione del teatro. Da osservatore attento, ma, in fondo, anche da teorico del teatro concettuale, Mango apprezza e sottolinea la capacità che quel fenomeno aveva di decostruire la logica strutturale della forma teatro secondo una strategia che sembrava non ammettere soluzioni di ritorno. Il processo analitico, secondo lui, non consisteva tanto nella messa a punto di un livello fonematico del linguaggio che consentisse di tornare a parlare, da una prospettiva rinnovata, la lingua del teatro, quanto in una disarticolazione estrema, di modo che del teatro non restasse, alla fin fine, che la riflessione sul teatro stesso. Una riflessione che , anziché tornare a proiettarsi dentro la carne viva della messinscena, avrebbe dovuto, e potuto, astrarsi ancora di più, farsi pensiero senza corpo, teoria senza spettacolo. Si trattava di un atteggiamento dal sapore dunchampiano, attraverso cui Achille Mango andava a parametrare l'efficacia della scrittura scenica quanto a capacità decostruttive, e che, ponendolo in sintonia assoluta con una stagione del nuovo teatro, gli creava, però, difficoltà enormi ad accettarne le trasformazioni. Dove le trasformazioni, a partire fagli anni Ottanta, riguardavano un recupero dello spettacolo, della materialità del linguaggio (anche da parte dei protagonisti del momento analitico) che Mango non poteva non leggere come un non accettabile ripiegamento verso logiche più "consumabili" di sperimentazione. Pur non facendo riferimento alle stesse motivazioni, troviamo una conferma di quanto detto poc'anzi nella evoluzione conclusiva della teorizzazione di Grotowski, lì dove propone l'affermazione del teatro come mezzo e non più come fine. Intende dire Grotowaki, che obiettivo del lavoro teatrale non è più quello di confluire in un ordine definito sul piano formale, quale era ancora quello del Teatro povero, ma di prospettare un'ipotesi di linguaggio come divenire, una sorta di infinita scrittura della pratica operativa del linguaggio. La sua ipotesi, contrariamente a quanto sostenuto da Mango (ma è comprensibile, anche, vista la loro diversa provenienza) non pretende che la presa di distanze dallo spettacolo si realizzi attraverso una totale astrazione del pensiero, quanto che occorre risalire ad un fondamento del linguaggio che eccede le forme istituzionali dello spettacolo ma che, ugualmente, si concretizzi in una prassi. Una prassi, però, da non confondersi con l'allestimento di singole opere; una prassi che è work in progress permanente, centrato sul lavoro che l'attore (quale veicolo privilegiato dell'operazione teatrale fin dai tempi del Teatro povero) compie anzitutto su se stesso, in un processo di ricerca che risulta, a conti fatti, infinita. Infinita, come infinita è, nei termini di Blanchot, la scrittura riguardo al libro. Così per Grotowski lo spettacolo, fino ad Apocalypsis cum figuris ( ed anzi soprattutto con questo spettacolo che verrà tenuto in repertorio per anni proprio a documentare visivamente una ricerca che oramai si era direzionata altrove) altro non è che una testimonianza transitoria, un agglomerato formale che deriva dalla messa in opera delle scritture della scena, senza, con questo, che di quelle scritture si riesca ad attingere la piena potenzialità, la quale, invece, è in grado di esprimersi solo nel momento in cui la scrittura si dà come ricerca pura, come processo creativo non finalizzato ad altro che ad approfondire le proprie qualità. La scrittura di scena che era alla base dei fondamenti del Teatro povero, in quanto tessitura di un accadimento che accompagnava la ricerca espressiva dell'attore interagendo con esso, si trasforma, adesso, in una sorta di scrittura sublimata, in una scrittura, cioè, che si dà quale operatività del fare, quale intervento di manipolazione degli elementi costitutivi del linguaggio teatrale - l'attore, il suo corpo e lo spazio in cui si trova ad agire - in un processo che risulta fine a sé stesso, in quanto ricerca assoluta. Ricerca dentro il linguaggio ed oltre quel prodotto del linguaggio teatrale che è lo spettacolo. Osservata in quest'ottica la funzione decostruttrice che la scrittura scenica assume nel nuovo teatro, e la stessa dimensione politica che le affidava Bartolucci, portano ad una soglia di autocombustione oltre la quale non vi è più arte, non vi è più teatro. Introducono nuovamente, cioè, (e diciamo nuovamente perché qualcosa di analogo si prefigurava già con le avanguardie storiche) a quella che Menna, con una felicissima espressione, aveva definito "profezia di una società estetica", di un mondo nuovo, cioè, in cui l'arte non offre più prodotti ma di cui diventa uno dei principi di fondazione. L'itinerario della "sparizione dell'arte" non diventa, però, in questo nuovo contesto teorico, un fatto sociale, non appartiene ad un processo rivoluzionario in senso strettamente politico. Riguarda, piuttosto, la sfera dell'individuale: quello antropologico, per Grotowski, quello del teatro come pensiero, come teatro delle idee per Achille Mango. Giunti a questo punto del ragionamento non possiamo non tornare a riflettere sul concetto di scrittura scenica, valutandolo, nuovamente, da una prospettiva di tipo teoretico. Proprio ad iniziare il nostro discorso avevamo ricordato come il termine non fosse stato scelto da Bartolucci solo per "amor di simmetria" col suo equivalente drammaturgico, ma in quanto era in grado di sottintendere tutta una serie di importanti riferimenti sul piano concettuale. I quali, adesso, ci tornano tutti incarnati nella prassi, e nella teoria, che accompagnano il nuovo teatro. A cominciare dal fatto che l'idea di scrittura scenica assume un suo significato ed un suo ruolo non solo strumentali. Ci appare, cioè, come qualcosa di più e di diverso che una definizione adatta ad inquadrare quel tipo di teatro che fa della scena la pagina bianca e degli elementi scenici i segni per scrivere in maniera originaria ed autonoma la specificità del linguaggio teatrale. Così come, ricordavamo all'inizio, non la si può ridurre a strumento linguistico per sintetizzare in una sola espressione quell'insieme variegato di elementi in cui consiste l'apparato visivo del teatro. Se la pensiamo in questa direzione, infatti, ad essere sottolineata è soprattutto la seconda metà del termine, quella che rimanda alla scena. A noi preme notare, invece, come un'attenzione del tutto particolare vada assegnata proprio alla parola: scrittura, la quale, evidentemente, non va intesa coma una brillante soluzione retorica. Scrittura è cruciale quanto scenica. Se l'una rimanda alla centralità dell'evento teatrale, al suo farsi, al darsi come testo, unico ed originale della messinscena, l'altra ricorda che il processo creativo è cosa distinta dalla sua finalizzazione in prodotto. Che il linguaggio del teatro è, anzitutto, una scrittura, un mezzo di intervento sul linguaggio stesso, sulla persona che lo pratica e su chi lo recepisce. In tali termini si erano espressi Blanchot, opponendo libro e scrittura, e Barthes, che distingueva una autonoma sfera della scrittura rispetto alla lingua ed allo stile. Nell'ambito del nuovo teatro abbiamo incontrato qualcosa di analogo, nel momento in cui la dimensione del processo creativo viene opposta a quella del prodotto, o quando la scrittura è utilizzata come strumento per disarticolare la consistenza semantica dell'oggetto linguistico. Attraverso la scena e i suoi specifici mezzi espressivi diventa possibile, così, direzionare il teatro verso una condizione di scrittura, in cui può risolversi tout court la sua condizione creativa. Detto in altri termini il teatro è la sua scrittura prima ed oltre i suoi spettacoli.