La crisi del dramma nel Diciannovesimo secolo va attribuita anche alle forze che fanno uscire gli uomini dal rapporto intersoggettivo e li spingono nell'isolamento. Ma lo stile drammatico messo in crisi da questo isolamento è in grado di sopravvivergli, se gli esseri umani isolati, a cui formalmente dovrebbe corrispondere il silenzio, oppure il monologo sono costretti, da fattori esterni, a ritornare alla dialogicità del rapporto intersoggettivo. Ciò accade nella situazione di angustia, che è alla base di quasi tutti i drammi moderni sfuggiti all'epicizzazione. La sua origine storica va ricercata nella tragedia borghese. nella sua prefazione a Maria Maddalena (1844) Hebbel indicava "l'elemento intimo e specifico" di essa nella "chiusura brutale con cui individui capaci di ogni dialettica stanno l'uno di fronte all'altro in una cerchia ristrettissima...". Ci si chiede se Hebbel si rendesse conto di aver toccato, in questa enunciazione, sia la crisi che il salvataggio della forma drammatica. Ma la "chiusura" e l'incapacità di ogni "dialettica" intersoggettiva annullerebbe la possibilità del dramma, che vive delle decisioni di individui aperti l'uno verso l'altro, se la cerchia ristrettissima non spezzasse a forza questa chiusura, se fra gli esseri umani isolati, ma legati l'uno all'altro, e i cui discorsi aprono ferite nella chiusura altrui, non si determinasse una seconda dialettica imposta loro a forza dall'esterno. L'angustia che qui vige nega agli uomini lo spazio di cui avrebbero bisogno per poter essere soli coi loro monologhi o in silenzio con sé stessi. Il discorso dell'uno ferisce letteralmente l'altro, ne infrange la chiusura e lo costringe a rispondere. Lo stile drammatico, minacciato di distruzione nell'impossibilità del dialogo, si salva quando, nella situazione di angustia, il monologo stesso diventa impossibile e si ritrasforma necessariamente in dialogo. Sulla base di questa dialettica tra monologo e dialogo sono sorte opere come La danza macabra (1901) di Strindberg e La casa di Bernarda Alba (1936) di Lorca. Bernarda Alba, rimasta vedova, trasforma la propria casa in un carcere di lutto per le cinque figlie. "Per tutti gli otto anni che durerà il lutto, - essa dice all'inizio, - non entrerò in questa casa il vento della via. Facciamo conto di aver murato coi mattoni porte e finestre. Così fu in casa di mio padre, così in casa di mio nonno". Nel secondo atto si vede "una stanza bianca. Le figlie di Bernarda sono sedute su sedie basse". Quando si accorgono dell'assenza di Adele, la più giovane, Maddalena esce a cercarla. Poi: MADDALENA: Dunque non dormivi? ADELE: Non mi sento bene MARTIRIO (con intenzione): Non hai dormito bene stanotte? ADELE: Sì. MARTIRIO: E allora? ADELE (con forza): Lasciami in pace! Se dormo o veglio, non devi impicciarti dei fatti miei. Del mio corpo ne faccio quel che mi pare! MARTIRIO: Era solo interessamento verso di te. ADELE: Interessamento o spirito di acquisizione? Non stavate cucendo? Continuate a cucire. Ah come vorrei essere invisibile e passare per le stanze senza che mi domandiate ogni volte dove vado! Il dramma di epoche precedenti non aveva conosciuto niente di simile. Il rapporto intersoggettivo e la sua estrinsecazione linguistica, il dialogo, il domandare e rispondere, non erano qualcosa di penosamente problematico, ma erano la naturale cornice formale in cui si muoveva la tematica attuale. Ma qui questa premessa formale del dramma diviene essa stessa tematica. Il problema che viene a porsi così all'autore drammatico, fu visto forse per la prima volta da Rudolf Kassner. in uno dei suoi primi saggi egli scrive a proposito dei personaggi fi Hebbel: "Essi somigliano, in realtà, a uomini che siano stati a lungo solo con sé stessi in silenzio, e che ora improvvisamente siano costretti a parlare. Qui il parlare è generalmente più facile al poeta che all'uomo, e perciò il poeta deve prendere spesso direttamente la parola dove vorremmo che a parlare fossero solo le sue creature"; dove Kassner anticipa già l'epicizzazione del dramma, l'inclusione nel dramma dell'autore che prende la parola come io epico. E più oltre: "Di questi uomini di può dire che sono dei dialettici nati, ma che lo sono solo alla superficie e contro la loro volontà; in fondo e prima di tutto, in tutti questi personaggi, si sente l'uomo che è stato a lungo con sé stesso, senza parole, l'uomo che potrebbe anche assistere al gioco in cui lo fa entrare l'autore". Dove si accenna di nuovo all'attività dell'autore drammatico, che diventerà visibile solo all'epoca della crisi del dramma. Essa appare ancor più evidente nelle opere la cui angustia tematica è un elemento secondario, un espediente formale per rendere possibile il dramma. L'angustia si giustifica solo se appartiene essenzialmente alla vita degli uomini di cui permette la rappresentazione drammatica. E' questo il caso della tragedia borghese, del dramma coniugale di Strindberg, del dramma delle convenzioni sociali (Lorca). Poiché questa angustia determina la sorte delle dramatis personae, poiché non c'è frattura fra i personaggi e la loro situazione, in queste opere l'autore drammatico non si fa avanti. Diversamente accade in molte opere drammatiche più recenti, dove i personaggi - mercé un atto drammaturgico precedente il dramma - sono trasferiti in una situazione di angustia che non è affatto caratteristica per essi, ma che sola consente loro di figurare in un dramma. Sono le opere il cui luogo d'azione è una prigione, una casa sprangata, un nascondiglio, una postazione militare isolata. La riproduzione della particolare atmosfera di tali luoghi non deve trarre in inganno sulla loro funzione formale. E lo stile drammatico che essi rendono possibile, è anche qui, come nel dramma-conversazione, più apparente che reale. Poiché l'assolutezza di queste situazioni accidentali di angustia è annullata dalla dramatis personae stesse, che, da questa situazione ad esse esterna, rinviano alle loro origini epiche, come anche dall'autore drammatico, che, in quanto soggetto dell'unione forzata dei personaggi, rimane incluso nell'opera. La drammaticità interna è pagata, per così dire, con un'epicità esterna; nasce il dramma in una boccia di vetro. La Guckkastenbuhne, o palcoscenico stereoscopico, che nel dramma classico ha il compito di creare una sfera chiusa, perché la realtà - ridotta al rapporto intersoggettivo - possa riflettersi in essa, diventa un bastione eretto contro l'epicità del mondo esterno, un alambicco; ciò che vi accade non è più un rispecchiamento, ma una metamorfosi - mercé quello che si potrebbe chiamare "esperimento drammaturgico di compressione". Questa drammaturgia è afflitta dall'artificiosità di simili costruzioni; troppo si richiede per renderla formalmente possibile, perché l'ambito tematico non ne soffra. Questo tipo di salvataggio dello stile drammatico può trovare una giustificazione artistica solo se arriva a liberarsi della sua artificiosità. E ciò che sembra riuscire nelle opere drammatiche dell'esistenzialismo. L'esistenzialismo - come concezione del mondo e come letteratura - è il tentativo, per quanto problematico, di raggiungere una nuova classicità che dovrebbe superare in sé il naturalismo. Per lo spirito classico come per lo stile classico, la limitazione all'umano era essenziale: la filosofia classica era umanistica, al suo centro era il concetto di libertà, e lo stile classico si realizzava compiutamente in quelle arti il cui principio formale è costituito solo dall'uomo: nella tragedia e nell'arte plastica. Il naturalismo è sempre una fase tarda nel processo di reificazione, e intorno al 1900, prima di spezzare i loro principi formali, che risalivano al Medioevo, sia il romanzo che la pittura erano naturalistici. Il dramma, facendosi naturalistico, si accostava al romanzo; la sua scena era un quadro di genere. La categoria centrale del naturalismo è l'ambiente: l'insieme di tutto ciò che è estraneo all'uomo, e sotto il cui dominio finisce per cadere la soggettività stessa, svuotata dall'interno. L'esistenzialismo cerca di ritornare al classicismo spezzando il rapporto di dominio fra l'ambiente e l'uomo, e radicalizzando l'estraniazione. L'ambiente si trasforma nella situazione; l'uomo, non più legato all'ambiente, è libero in una situazione che gli è estranea e che pure è specificamente sua. Ma libero non solo in senso privativo; poiché egli conferma la sua libertà - cesondo l'imperativo esistenzialistico dell'engagement -solo risolvendosi alla situazione e fissandosi in essa. L'affinità fra esistenzialismo e classicismo si basa sulla restaurazione del concetto di libertà, ed è proprio questa restaurazione che sembra permettere all'esistenzialismo il salvataggio dello stile drammatico. E la drammaturgia esistenzialista si avvicina proprio ai tentativi di salvare il dramma dall'epicizzazione creando situazioni di angustia. Grazie ad una singolare coincidenza fra i momenti formali di questi tentativi e le intenzioni tematiche del drammaturgo esistenzialista, la forma, vuota fino a quel momento, diventa in questa associazione, espressione formale, e libera - così- dalla sua artificiosità la drammaturgia dell'angustia. Questa artificiosità dipendeva dal fatto che i personaggi erano trasferiti dal drammaturgo in una situazione di angustia antecedente all'opera, e dal carattere accidentale di tale situazione. In base alle sue premesse spirituali, l'esistenzialismo giunge proprio ad esigere, nel dramma, quel trasferimento e questa accidentalità. Poiché la sua tematica - l'estranieità essenziale della situazione e la perenne "deiezione" dell'uomo" - può realizzarsi drammaticamente solo in un'azione caratterizzata da questi tratti comuni - secondo l'esistenzialismo - alla condizione umana. L'estraneità essenziale di ogni situazione deve trasformarsi nell'estraneità accidentale della situazione rappresentata. Ecco perché il drammaturgo esistenzialista mostra gli uomini non nel loro ambiente "abituale", ma li trasporta in un ambiente nuovo. Questo trasferimento, che ripete - per così dire - come esperimento la "deiezione" metafisica, fa apparire i fattori esistenziali, "i caratteri ontologici dell'esistenza", straniati in esperienze specifiche e determinate delle dramatis personae. Questa idea fondamentale è alla base di quasi tutte le opere di J.P. Sartre. Nella sua prima opera, Le mosche (1945), l'antica vicenda di Elettra è reinterpretata nel senso di un esperimento esistenzialista. Cresciuto lontano dalla patria, Oreste torna straniero nel luogo della sua nascita, come l'uomo - secondo l'insegnamento dell'esistenzialismo - viene al mondo come uno straniero, gli si "aggiunge". Per non essere più uno straniero, Oreste, giunto ad Argo, deve confermare la sua libertà apriori, legandosi e rinunciando da uomo libero alla sua libertà. Egli vendica Agamennone e libera la città dalle Mosche-Erinni, diventando assassino e - come assassino - legando le Mosche a sé. Morti senza tomba (1946) ci presenta sei membri di un gruppo di resistenza durante l'arresto; Le mani sporche (1948) trasporta un giovane borghese nel partito comunista. ma l'opera che presenta l'equilibrio più perfetto tra trasferimento drammaturgico ed esistenzialistico e che meglio rivela la sostanziale affinità tra la drammaturgia dell'angustia e quella esistenzialistica, è A porte chiuse (1944). Già il titolo allude all'esperimento di uno spazio ermeticamente chiuso. Il luogo dell'azione è un salotto stile secondo Impero nell'inferno. Il fatto che un'opera profana si svolga all'inferno e lo descriva come un salotto si spiega solo col metodo dell'inversione che G. Anders ha illustrato su opere di Esopo, Brecht e Kafka. in forma secolarizzata, Sartre vuol dire che la vira sociale è l'inferno; ma inverte la predicazione e ci mostra l'inferno come un salotto in stile Impero, dove il protagonista, poco prima che cali il sipario, pronuncia la battuta chiave: "L'inverno sono gli altri". Mercé questa inversione una categoria esistenziale divenuta problematica, quella per cui l'uomo è un uomo tra gli uomini, e che sola fonda la vita sociale e la possibilità di un salotto, viene "straniata" e sperimentata come qualcosa di nuovo nella situazione "trascendentale" dell'inferno. Formalmente ciò che tocca anche la crisi del dramma. Quando la socialità dell'uomo come categoria esistenziale diventa problematica, è messo in discussione anche il principio formale drammatico, il rapporto intersoggettivo. Il rapporto intersoggettivo, tematicamente in crisi, non è problematico formalmente, grazie all'angustia del salotto chiuso. La differenza sostanziale rispetto alla restante drammaturgia dell'angustia consiste in ciò, che qui l'inferno non è un apparato meramente formale per rendere possibile il dramma. Al contrario, mercé la tecnica dell'inversione, si manifesta in esso l'essenza recondita di una forma sociale, che altrimenti distrugge la possibilità del dramma. Ma il trasferimento di una situazione trascendentale non significa solo il distacco dall'esistenza umana come tale; esso permette anche uno sguardo retrospettivo alla propria esistenza nella sua particolarità. A porte chiuse continua quindi la tradizione del "dramma analitico", ma senza quelli che abbiamo visto essere i difetti di Ibsen. Poiché il fatto di sedere a giudici del proprio passato non ha qui bisogno di essere motivato con elementi esterni, come l'arrivo di un membro della famiglia, ma è già implicito nel luogo dove si svolge l'azione. E lo sguardo retrospettivo non può più definirsi epico: poiché il passato è, per i morti, un eterno presente. In ciò A porte chiuse si ricollega ad un'altra tradizione, che è stata forse fondata da Il folle e la morte di Hofmannsthal. L'oggettivarsi della propria vita trovava la sua espressione adeguata in questo sguardo retrospettivo, reso possibile dalla morte. L'opera di Hofmannsthal rappresenta l'elemento della riflessione ostile alla vita, del "senso troppo vigile", proprio in quanto la vita riflessa diventa a sua volta - alle soglie della morte - oggetto di riflessione (peraltro lirica). Questo mito si aggira come un fantasma, sotto varie forme, in tutta la letteratura del ventesimo secolo: dalla poesia più sublime al teatro di boulevard. Nel suo dramma La sconosciuta di Arras (1935) Salacrou fa rivivere a un suicida "trentacinque anni in una frazione di secondo", recitati dai personaggi che hanno deciso il corso della sua vita. E nel manifesto espressionista di T. Daubler, Il nuovo punto di vista (1916), c'è questa frase: "La voce del popolo dice: chi è impiccato rivive nell'ultimo istante tutta la sua vita. Questo non può che essere espressionismo!".