L'evoluzione di Arthur Miller da epigono a innovatore, che si compie fra le sue due prime opere edite, riflette con particolare evidenza quella generale trasformazione stilistica che collega e separa insieme i drammaturghi della fine (o dell'inizio) del secolo e quelli di oggi: l'affrancarsi della tematica epica dalla forma drammatica in una forma adeguata. Se questo processo centrale dell'evoluzione del dramma moderno è stato esposto finora soprattutto confrontando fra loro i due periodi, contrapponendo Ibsen e Pirandello, Checov e Wilder, Hauptmann e Brecht, in Miller - come già prima in Strindberg - esso appare evidente nell'opera di un solo autore. In Erano tutti miei figli (1947) Miller ha cercato di salvare il dramma sociale analitico di Ibsen trasferendolo immutato nell'America di oggi. Con un'analisi spietata è progressivamente scoperto il delitto - tenuto celato per anni - dal capofamiglia Keller, che forniva all'esercito parti di aereo difettose e che si era reso colpevole, così, anche del suicidio - tenuto del pari nascosto - del figlio Larry. Vi sono tutti i momenti secondari dell'azione che hanno il compito di trasformare il racconto del passato in un fatto drammatico, come il ritorno della fidanzata di Larry edi suo fratello, il cui padre - un impiegato di Keller - sta scontando senza colpa i crimini di costui. Non manca neppure l'oggetto, spesso penosamente commovente, mediante il quale, in Ibsen, il passato che continua a vivere nell'intimo affiora visibilmente nel presente, e che simboleggia insieme, a fatica, il significato profondo della piéce: in questo caso l'albero che era stato piantato un tempo per Larry e che sta in mezzo alla scena, nel cortile, spaccato in due dalla tempesta della notte precedente. Se ad Erano tutti miei figlinon avesse fatto seguito Morte di un commesso viaggiatore (1949), quest'opera andrebbe ricordata come un esempio dell'enorme influenza esercitata da Ibsen nei paesi anglosassoni, influenza che cominciò con G. B. Shaw e che dura tuttora. Essa appare invece come un'opera del periodo di formazione; come se Miller, volendo rappresentare teatralmente una "vita mancata", e in particolare un passato traumatico, si fosse reso conto - seguendo Ibsen - di tutte le resistenze che incontra questo tema da parte della forma drammatica, e di tutti i passivi che implica conquistarlo ad essa. Durante l'elaborazione di Erano tutti miei figli dovette apparirgli ben chiaro ciò che abbiamo osservato a proposito di Gian Gabriele Borkman: il contrasto fra il passato ricordato nella tematica e il presente spaziale e temporale postulato dalla forma drammatica; la conseguente necessità di motivare l'analisi in una vicenda aggiunta appositamente, e infine l'incongruenza del fatto che questa seconda azione domina la scena, mentre la vera "azione" rimane confinata nelle confessioni dei personaggi. Nella sua seconda opera Miller cerca di evitare queste contraddizioni abbandonando la forma drammatica. Fondamentale, in questo senso, è la sua rinuncia all'analisi travestita da azione. Il passato non è, qui, recato a forza alla luce e al linguaggio nel confronto drammatico dei personaggi, e non accade più che, a causa del principio formale, le dramatis personae appaiono signore della loro vita passata, di cui in realtà sono le vittime impotenti. Ma il passato giunge a rappresentazione esattamente come si fa luce nella vita stessa: in forza propria, nella "mèmoire involontaire" (Proust). Così, nello stesso tempo, esso resta un'esperienza meramente soggettiva e non crea - nell'analisi condotta in comune - ponti fittizi fra gli uomini che ha lasciato divisi per tutta la vita. Così, nella tematica attuale, all'azione inter soggettiva che obbligherebbe a parlare del passato, si sostituisce la condizione psichica di un uomo che cade in preda ai ricordi. Come tale è descritto il commesso viaggiatore Loman, ormai alle soglie della vecchiaia: il dramma ha inizio quando egli soccombe completamente ai ricordi. Da qualche tempo i suoi familiari osservano che egli parla spesso fra sé; in realtà egli rivolge loro la parola, ma non nel presente reale, bensì nel passato che egli ricorda e che non lo lascia più. Il presente del dramma è costituito dalle quarantottore successive al ritorno inatteso di Loman da un viaggio d'affari: mentre era al volante il passato lo travolgeva sempre di nuovo. Egli cerca invano di farsi trasferire nella sede di New York della sua ditta, che rappresenta ormai da decenni; là si accorgono del suo stato (poiché parla sempre del passato) e lo licenziano. Alla fine, per essere utile alla famiglia, che potrà riscuotere il premio di assicurazione, Loman si toglie la vita. Lo schema di questa vicenda attuale ha più ben poco a che fare con la vicenda corrispondente dei drammi di Ibsen, e dello stesso Erano tutti miei figli. Né è un fatto drammatico in sé concluso, né induce a evocare il passato nei dialoghi. Tipica per questo aspetto è la scena fra Loman e il suo principale. Il principale non è disposto a rievocare in un colloquio comune la carriera del commesso viaggiatore, o la figura del proprio padre, che sarebbe stato animato da sentimenti di simpatia nei confronti di Loman; con un pretesto esce dalla stanza e lascia Loman solo coi suoi ricordi, che diventano sempre più intensi. Ma il ricordo è la nuova via (anche se già nota da tempo nel film col nome di flash.back) per introdurre il passato al di là e al di fuori del dialogo. La scena si trasforma continuamente nello spettacolo che la mémoire involontaire offre al commesso viaggiatore. A differenza del "processo giudiziario" di Ibsen , il ricordo accade senza che se ne parli, e quindi affatto nell'ambito formale. L'eroe si osserva nel passato ed è quindi accolto - come io che si ricorda - nella soggettività formale dell'opera. La scena mostra solo il suo oggetto epico: l'io ricordato, il commesso viaggiatore del passato, mentre parla coi suoi familiari. Questi non sono più dramatis personae autonome, ma appaiono riferite all'io centrale, come i personaggi proiettati della drammaturgia espressionistica. Il carattere epico di questa drammaturgia del ricordo appare evidente se la confrontiamo al "teatro nel teatro" come lo conosce il dramma. La rappresentazione teatrale organizzata da Amleto, che mostra il passato come egli lo immagina "per cogliere la coscienza del re", è inserita nell'azione come un episodio e costituisce in essa una sfera chiusa, che lascia sussistere l'azione come suo ambiente esterno. Poiché questo secondo spettacolo è di ordine tematico, e il momento della rappresentazione è, in esso, scoperto, tempo e luogo delle due azioni non entrano in conflitto tra loro, e le tre unità drammatiche - e l'assolutezza della vicenda - restano intatte. Nella Morte di un commesso viaggiatore, invece, la rappresentazione del passato non è un episodio tematico e la vicenda presente sconfina continuamente in essa. Qui non c'è una compagnia di attori che entri in scena; senza dire una parola i personaggi possono trasformarsi in interpreti di sé stessi, poiché l'alternarsi della vicenda inter soggettiva attuale e di quella passata e ricordata è saldamente fondata nel principio formale epico. Così sono soppresse anche le tre unità drammatiche, e soppresse nel senso più radicale: il ricordo non implica solo molteplicità di luogo e di tempo, ma anche la perdita della loro identità. Il presente spaziale e temporale della vicenda non è relativo solo ad altri presenti, ma diventa relativo in sé stesso. E' per questo che, nella scenografia, non si hanno veri e propri cambiamenti, ma piuttosto una metamorfosi continua. La casa del commesso viaggiatore rimane sul palcoscenico, ma nelle scene ricordate non si tiene più conto delle sue pareti, coerentemente a ciò che avviene nel ricordo, che non conosce barriere di spazio e di tempo. Particolare evidenza assume questa relatività del presente nelle scene di passaggio, che appartengono ancora alla realtà esterna e insieme già a quella interiore. Nel primo atto, ad esempio, mentre Willy Loman gioca a carte col suo vicino di casa, Charley, appare sul palcoscenico il fratello del commesso viaggiatore, Ben, personaggio del ricordo: WILLY: Comincio ad essere veramente stanco, Ben. CHARLEY: Oh. Continua a giocare. Vedrai come t'addormenti. M'hai chiamato Ben? WILLY: Che stupido. Per un momento mi eri sembrato mio fratello Ben. Il commesso viaggiatore non dice di vedere davanti a sé suo fratello morto. Poiché la sua apparizione sarebbe un'allucinazione solo nell'ambito della forma drammatica, che esclude per principio il mondo interiore. Ma qui la realtà presente e quella interiore del passato giungono insieme a rappresentazione. Nel momento in cui il commesso viaggiatore ricorda suo fratello, questi è già in scena: il ricordo è entrato nel principio formale scenico. E poiché accanto al dialogo si ha qui il monologo interiore, cioè il colloquio con la persona ricordata, si determina un dialogo dove i personaggi parlano senza ricevere risposta, sul tipo di quello di Checov: BEN: Abita con te nostra madre? WILLY: No, è morta. Da tanti anni ormai. CHARLEY: Chi? BEN: Oh, che peccato. Era una vera signora, la mamma CHARLEY (a Charley): Eh? BEN: L'avrei rivista così volentieri. CHARLEY: Chi è morto? BEN: E di nostro padre hai notizie? WILLY (coi nervi a pezzi): Come, chi è morto? CHARLEY: Si può sapere che stai dicendo? Per dare forma drammatica a questo malinteso continuo Checov si servì dell'artificio tematico della sordità. Qui esso scaturisce formalmente dall'accostamento dei due mondi, la cui rappresentazione simultanea è resa possibile dal nuovo principio formale. I vantaggi che esso offre rispetto alla tecnica di Checov sono evidenti. L'artificio tematico, il cui significato simbolico rimane oscuro, permette sì al malinteso di esprimersi, ma ne dissimula la vera origine: il fatto che l'uomo si preoccupa solo di sé stesso e del passato ricordato, fatto che può manifestarsi direttamente solo una volta abolito il principio formale drammatico. E' proprio questo passato che ritorna presente ad aprire infine gli occhi al commesso viaggiatore, che cerca disperatamente la causa della propria disgrazia e più ancora degli insuccessi professionali del figlio maggiore. Mentre Loman siede al ristorante davanti ai figli, emerge all'improvviso nella sua memoria, e quindi anche agli occhi degli spettatori, una scena del passato: suo figlio lo sorprende in una camera d'albergo a Boston con l'amante. Ora Loman capisce perché da allora suo figlio è passato continuamente da un impiego all'altro, e ha danneggiato - commettendo un furto - la propria carriera: voleva punire suo padre. Nella Morte di un commesso viaggiatore Miller non volle più svelare questo segreto (il fallo del padre ereditato da Ibsen, e ancora centrale in Erano tutti miei figli) in un procedimento giudiziario inventato per amore della forma. Egli fece sue le parole di Balzac, all'insegna delle quali sembrano vivere sia i personaggi di Ibsen che i suoi: "Moriremo tutti sconosciuti". Accostando il ricordo al dialogo presente, che per il dramma è la sola possibilità di rappresentazione, egli ha realizzato il paradosso drammatico di rendere scenicamente attuale il passato di più persone, ma di farlo per la coscienza di una sola. Diversamente dall'analisi di Ibsen, che fa parte della tematica, la rappresentazione del passato basata su un principio formale non ha alcuna ripercussione sugli altri personaggi. Per il figlio quella scena sarà sempre un segreto assoluto, che non potrà rivelare a nessuno come origine del fallimento della propria vita. Così il suo odio muto non erompe fino al suicidio dle padre, e neppure dopo. E nel "requiem" che conclude l'opera, la moglie del commesso viaggiatore pronuncia, sulla sua tomba, parole che colpiscono e commuovono proprio per la loro inconsapevolezza: LINDA: Perdonami caro, non mi viene da piangere. Chi lo sa perché, non mi viene da piangere, Non capisco. Perché l'hai fatto? Aiutami Willy, non mi viene da piangere, Mi sembra che tu sia partito per il tuo solito giro. Sto qui ancora ad aspettarti. Willy caro, non mi viene da piangere. Perché l'hai fatto? Mi sforzo, mi sforzo, ma non riesco a capire... Sipario.