Non c'è forse altra opera, nella drammaturgia moderna, che sia pari a La piccola città di Thornton Wilder(1938) per l'audacia dell'impostazione formale e al tempo stesso per la toccante semplicità dell'espressione. Per il lirismo malinconico che assume qui la vita quotidiana, Wilder deve molto ai drammi di Checov, ma le suo innovazioni formali cercano di liberare l'eredità cechoviana dalle sue contraddizioni e di darle forma adeguata al di là del dramma. Poiché Checov, come anche Hauptmann e altri autori, non intendeva rinunciare alla forma drammatica, dovette svisare la vita dei suoi personaggi, che non si realizza più nella sfera del conflitto e della decisione, in una vita almeno embrionalmente drammatica. La vicenda monotona, priva di accadimenti e profondamente impersonale, che si trascina avanti a fatica, diventa una vicenda attuale - inter soggettiva e assume parvenza di unicità. Di questa infedeltà al tema, determinata esclusivamente dalla forma, Wilder non volle rendersi colpevole. Egli affrancò quindi l'azione dal compito drammatico di creare la forma dalle proprie interne contraddizione, e affidò questo compito ad un personaggio nuovo, che è al di fuori dell'ambito tematico, nel punto archimedico del narratore epico, e che viene introdotto nell'opera come regista. E poiché le dramatis personae vengono ad essere, nei suoi riguardi, oggetto di presentazione o rappresentazione, il momento della rappresentazione - che nel vero dramma è sempre nascosto - diventa qui esplicito. Dove peraltro si può parlare di "distruzione dell'illusione" solo se assumiamo criticamente questo concetto della drammaturgia romantica. L'"illusione" drammatica indica - sotto l'aspetto della ricezione psicologica - il carattere di mondo omogeneo e chiuso proprio del dramma, vale a dire la sua assolutezza. L'illusione viene distrutta quando, in seno alla struttura del dramma, si opera una distinzione; quando al rapporto interpersonale se ne sovrappone - per così dire - un altro (sovra personale o interiore). Sia nell'"ironia romantica" di Tieck che nel teatro epico di Wilder esiste questo rapporto fra soggetto e oggetto della coscienza, ma con la sostanziale differenza che i personaggi delle commedie di Tieck, come proiezioni del soggetto protoromantico, hanno coscienza di sé stessi, e diventano quindi oggetti a sé stessi, mentre nella Piccola città è il Regista che acquista coscienza di essi come personaggi, e la relazione soggetto-oggetto rimane quindi esterna ai personaggi: è appunto la relazione epica fra il narratore e il suo oggetto. Il risultato della distruzione dell'illusione è, nell'opera del poeta romantico, la rappresentazione della perdita reale del mondo, vissuto dall'io divenuto onnipotente; la distruzione dell'illusione nel "dramma" moderno porta invece a quell'esperienza estetica del mondo che è comunicata da ogni letteratura epica. All'azione drammatica si sostituisce la narrazione scenica, il cui ordine è stabilito dal Regista. Le singole parti non si generano da sé come nel dramma, ma sono composte e saldate in un tutto dall'io epico, secondo uno schema che trascende i singoli eventi generalizzandoli. Così passa in secondo piano anche il momento drammatico della tensione, poiché una data scena non deve avere in sé il germe della successiva. L'esposizione, che mai, forse, come qui è stato così difficile drammatizzare, e cioè inserire nel corso della vicenda, può restare tuttavia sul piano della situazionalità epica. Questo primo atto è intitolato La vita quotidiana: esso interviene per breve tempo - di mattino, il pomeriggio, di sera - nella vita di due famiglie. Poiché, a queste scene, non è assegnato alcun compito drammatico, esse non devono portare la vita in situazioni di conflitto; tutto fa supporre che questo 7 maggio 1901, che ci viene mostrato, sia un giorno come tutti gli altri. Anche le due famiglie vicine sono ritratte secondo il principio della rappresentatività: la famiglia del Medico e quella del Giornalista, l'una e l'altra senza alcuna peculiarità specifica, con due figli ciascuna, un ragazzo e una ragazza, coi problemi comuni a tutte le famiglie, e i discorsi vertono su particolari che possono stare per mille altri. Amore e matrimonio è il titolo dato al secondo atto. E' il 7 luglio 1904, il giorno in cui il figlio del Medico sposa la figlia del Giornalista. Comincia un altro giorno, dapprima uguale a tutti gli altri, poi seguono i preparativi del matrimonio. Per spiegare questo matrimonio, il Regista torna indietro nel tempo e ritrasforma in presente scenico il colloquio in cui Giorgio ed Emilia si dichiararono l'un l'altra, e poi un altro colloquio - anch'esso passato - fra i genitori di Giorgio sul matrimonio in vista. Segue la cerimonia, anch'essa rappresentata, non come qualcosa di attuale ed unico, ma come un importante avvenimento che ritorna nella vita di quasi tutti gli esseri umani. "Ci sono infinite cose da dire intorno ad un matrimonio - dice il Regista rivolgendosi al pubblico, - e infiniti sono i pensieri che passano per la mente a chi assiste ad un matrimonio. Noi non possiamo riassumerli tutti in una sola cerimonia nuziale, si capisce; e specialmente a Grover's Corners, dove le cerimonie nuziali sono sempre piuttosto semplici e sbrigative. In queste nozze io rappresento il sacerdote. Questo mi dà la facoltà di dirvi qualcosa in proposito". Il carattere rappresentativo dell'azione è così evidente che il Regista può supplire con le parole dove la realizzazione scenica non giunge. Così, anche nel terzo atto, che tratta della morte. Nove anni dopo, nell'estate del 1913, Emilia muore dando alla luce il suo secondo figlio e viene sepolta nel cimitero di Grover's Corners. Ma il Regista non eredita dall'azione solo il compito di garantire il tutto formale. In lui si rovescia in forma anche la tematica che provocò, negli anni a cavallo del secolo, la crisi del dramma. La problematicità dei rapporti inter soggettivi aveva messo allora il dialogo in una situazione paradossale: quanto più fragili diventavano le sue basi esistenziali, e più doveva tradurre e risolvere in forma dialogica fatti estraniati della sfera metadialogica del passato (Ibsen) o delle condizioni sociali (Hauptmann). Alla rappresentazione di queste oggettività provvede qui il Regista sottraendola all'intreccio dialogico. Il distacco epico, ancora interno alla tematica, che gli eroi di Ibsen hanno - malgrado e contro la forma drammatica - nei confronti del loro passato, e quelli di Hauptmann nei riguardi delle condizioni politico-economiche della loro esistenza, perviene qui - nella posizione epica del Regista - alla sua espressione formale. Egli viene così a sostituire i personaggi-medianti, che appaiono all'interno dell'azione nella drammaturgia di transizione di Strindberg ed di Hauptmann: il direttore Hummel, il ricercatore sociale Loth. La cornice temporale dei tre atti, separati fra loro da grandi intervalli, viene epicamente rappresentata - insieme al passato e agli anni a venire - nei commenti del Regista. Ma ancora più importante è la descrizione che egli fa dell'ambiente: della città di Grover's Corners, della sua situazione geografica, politica, culturale e religiosa. Ciò che il drammaturgo naturalista cercava faticosamente di trasformare in un fatto inter soggettivo attuale, con un lavoro destinato a priori all'insuccesso, è presentato qui al pubblico, nell'introduzione e fra le prime tre scene, dal Regista, da un "Professore universitario" e dal Giornalista che prende parte all'azione. Con precisione scientifica e ironica a un tempo, lo spettatore viene informato dello sfondo oggettivo su cui si svolgerà poi la vita delle due famiglie, che però a sua volta rappresenta quella dell'intera città. Anche se qui si conserva ancora l'intenzione naturalistica di mostrare sulla scena l'ambiente come fattore condizionante l'esistenza dei singoli, si cerca tuttavia, nello stesso tempo, di liberare lo spazio dialogico da quelle oggettività per cui il dialogo della drammaturgia di transizione minacciava continuamente di rovesciarsi in descrizione epica. Come segno esteriore di questa tendenza va vista anche la mancanza dell'elemento scenografico e decorativo. L'oggettività può trovar posto solo nei commenti del Regista; la scena deve restare sgombra per l'accadere inter soggettivo, pur problematico e limitato. Grazie a questa rappresentazione epica dell'oggettività, il dialogo della Piccola città acquista una trasparenza e una purezza che, dal classicismo in poi, possiede solo nei drammi lirici. Il teatro epico di Wilder mostra quindi di non essere solo una rinuncia al dramma, ma anche un tentativo di dare una nuova collocazione, entro una cornice epica, al suo contenuto essenziale: il dialogo. Ma quanto il dialogo sia messo in crisi dall'interno, appare soprattutto nel terzo atto, dove Wilder ha saputo ricalare nella tematica il principio formale della sua opera e l'intuizione che le diede origine. Emilia è condotta al sepolcro, ma vorrebbe lasciare i morti per far ritorno alla vita. Invano i morti cercano di farla desistere dal suo proposito: essa affronta il rischio dell'amara delusione che le si predice e supplica il Regista di farle rivivere almeno un giorno della sua vita. Sarà il giorno de suo dodicesimo compleanno. La libertà epica del regista di ritornare al passato attualizzandolo si trasforma qui in una facoltà pressoché divina: egli può ridare ai morti il loro passato. La presentazione di questa giornata non ha più luogo per gli spettatori, ma per una dramatis persona che sta a guardare, e il distacco epico del narratore verso la vita che descrive diventa quello dei morti verso la vita in generale. Come accade già nel giovane Hofmannsthal, e non di rado nel periodo successivo, la permanente auto estraniazione dell'uomo è illustrata e esemplificata con la prospettiva della morte e del morire, che soli - in realtà - potrebbero giustificare questo distacco dell'uomo nei propri riguardi. L'immagine che il morto acquista dei vivi si rivela quindi come l'immagine mortificante che l'uomo odierno ha di sé stesso. EMILIA: I vivi non capiscono, vero? LA SIGNORA GIBBS: No, cara...non molto. EMILIA: E' come se fossero rinchiusi in tante piccole scatole, non ti pare? Ecco la prima conoscenza che la morte rende possibile. La seconda si comprende solo mediante un'inversione, e solo così diventa una vera conoscenza: EMILIA: Perché dovrebbe essere doloroso [il ritorno]? IL REGISTA: Non soltanto vivrete, ma vi vedrete vivere. Se così non si esprimesse - "straniata" in esperienza dei morti - un'esperienza fondamentale dell'uomo vivente oggi, lo spettatore non potrebbe capire la tragicità della scena seguente, dove Emilia assiste al giorno del suo dodicesimo compleanno come bambina che vi partecipa e, insieme, come donna spettatrice. Il fatto che Emilia veda continuamente anche sé stessa è il rovescio, per così dire, della cecità che riconosce nei vivi. "L'inevitabile preoccupazione per sé di ciascuno": in questa espressione l'autore ha riassunto, in una lettera, entrambi gli aspetti, e ha rimandato a Checov: "I drammi di Checov mostrano sempre questo: che nessuno sente ciò che gli altri dicono. Ciascuno procede in un sogno egocentrico....Questo è certo uno dei principali significati del Ritorno al Compleanno". La rinuncia di Wilder alla forma drammatica, al dialogo come solo modo di esprimersi, si spiega anche con la comprensione di questo fatto.