Le dramatis personae hanno sempre avuto la possibilità di parlare - di tanto in tanto - "a parte". Ma questa temporanea sospensione del dialogo non smentisce la tesi che la forma drammatica ha il suo principio nel dialogo, e non è neppure la famosa eccezione che si limita a confermare la regola (che è espressione priva di senso). Essa prova invece - indirettamente - la forza della corrente dialogica, che sopravvive a questa interruzione, per così dire al di là del dialogo. Ma ciò è possibile solo perché il parlare tra sé, come avviene nel dramma vero e proprio, non mira affatto a distruggere il dialogo; anche qui vale la citata osservazione di Lukàcs sul monologo. L'espressione "a parte" non differisce essenzialmente dall'espressione dialogica, non scaturisce da uno strato più profondo del soggetto, né rappresenta la verità interiore davanti a cui il dialogo si smaschera come menzogna esterna. Non è per caso che il vero regno dell'"a parte" è la commedina: dove la possibilità di comprendersi è meno che mai in discussione e dove meno sussiste l'istanza di una verità psichica interiore. ma in questo spazio dialogico garantito il massimo effetto comico è proprio nel suo temporaneo annullarsi, donde i malintesi e gli scambi che costituiscono, per esempio tutta la farsa di Molière Sgamarello, o il cornuto immaginario. Qui l'"a parte" ha una sua funzione importante: quella di marcare vivo i malintesi e gli scambi di persona. E non a caso, infine, i grandi drammaturghi del passato rinunciavano a questo mezzo negli incontri più intimamente problematici dei loro drammi, dove gli autori moderni utilizzerebbero proprio l'"a parte". Si rilegga il dialogo di Racine tra Fedra e Ippolito, o quello di Schiller tra Maria Stuarda ed Elisabetta. Proprio perché qui la struttura dialogica è messa alla prova ed attaccata nelle sue fondamenta, l'"a parte" non può entrare in gioco, e il dialogo deve lottare con tutte le sue forze per la propria continuità, e per la salvezza della forma drammatica. E dove, in un vero dramma, si fondono commedia e tragedia, come nell'Anfitrione di Kleist, il parlare tra sé tende di preferenza al polo comico; ecco perché il detto di Giove ("Maledetta la follia che mi condusse qui"), che è un'allusione alla tragedia divina, corre sempre il rischio di non essere preso sul serio, come l'esclamazione di chi ci ha lasciato le penne. Il mutamento storico della funzione dell'"a parte", che ha luogo agli inizi della drammaturgia moderna, appare con particolare evidenza nei drammi di Hebbel. Rudolf Kassner ha visto nei personaggi hebbeliani l'uomo "che è stato a lungo con sé stesso, senza parlare"; e infatti in questo autore, l'"a parte" non sono più in funzione della situazione, ma traggono spunto da essa per rivelare l'intimo dell'uomo, per cui essa è già qualcosa di estrinseco. E' così che, già nella prima scena, l'idea folle di Erode si annuncia in un discorso apparentemente innocuo, e ciò con l'isnerzione di un "fra sé". Giuda, un capitano, gli riferisce dell'incendio scoppiato la notte prima, e parla di una donna che si era rifiutata di abbandonare la casa in fiamme. ERODE: Sarà stata fuori di senno! GIUDA: E' possibile che ne sia uscita per il dolore. Il marito le era morto poco prima, il cadavere era ancora caldo nel letto. ERODE (tra sé): Voglio dirlo a Marianna, e intanto fissarlo negli occhi. (Ad alta voce) Quella donna non aveva un figlio, vero? In questo caso, al figlio provvederei io! Che essa però sia sepolta solennemente, con lo sfarzo che si conviene ai principi: essa era forse la regina delle donne". E nel colloquio decisivo: ERODE: Se io, io in persona mi trovassi in punto di morte, potrei fare ciò che ti aspetti da Salomè; ti mescerei del veleno e te lo porgerei col vino, per essere sicuro di te anche nella morte! MARIANNA: Se facessi questo, guariresti. ERODE: Oh no, oh no! Condividerei la tua sorte! Ma tu dimmi: un amore troppo, troppo grande, come sarebbe questo, potresti tu perdonarlo? MARIANNA: Se, dopo aver bevuto, mi restasse il fiato per pronunciare ancora un'ultima parola, questa parola sarebbe una maledizione! (Tra sé) E lo farei quanto più è certo che, se la morte ti chiamasse, potrei, nel mio dolore, por mano al pugnale; questo si può farlo, ma non subirlo! Qui il parlare "a parte" non serve più a correggere l'errore di una situazione esterna, ma - grazie ad esso - il colloquio con Erode si prolunga nell'intimo di Marianna, e si rivela il sentire più intimo di lei, che non confuta cioè che essa dice, ma lo approfondisce essenzialmente. In Marianna non parlano due persone diverse: una che simula con Erode e l'altra vera. Non è che essa si tradirebbe - come, ad esempio, il Giove di Kleist - se dicesse tutto; ma ha sentimenti che il suo animo si rifiuta di comunicare al consorte. E il fatto che essa debba ora dissimulare il suo vero amore per Erode, contribuisce notevolmente alla conoscenza della sua personalità. L'uso che Hebbel fa dell'"a parte" anticipa quindi la tecnica del monologue intèrieur dei romanzieri psicologici del ventesimo secolo, ed è comprensibile che la drammaturgia moderna sia stata incoraggiata dalla scuola di Joyce ad applicare su vasta scala l'"a parte". Così Strano interludio (1928), il dramma in nove atti di Eugene O'Neill, non si limita a riportare i discorsi dei suoi otto personaggi, ma ne registra continuamente anche il pensiero, che essi non possono comunicare all'interlocutore, perché troppo estranei l'uno all'altro. Ciò è confermato indirettamente dall'inizio dell'ultimo atto. Qui, per la prima volta, i monologhi interiori tacciono, perché sul palcoscenico c'è una coppia di giovani innamorati che ignorano, almeno per breve tempo, l'abisso inter soggettivo. Ma determinando la forma allo stesso titolo e nella stessa misura del dialogo, l'"a parte" perde il diritto di essere chiamato così. Poiché parlare di "a parte" ha senso solo in un ambito dove in linea di principio si usa il dialogo. Ma qui l'"a parte" non è più una temporanea sospensione del dialogo, ma permane autonomo accanto al dialogo drammatico come il resoconto psicologico di un io epico. Strano interludio è quindi, nella sua forma, un montaggio composto di parti drammatiche e di parti epiche. Questo montaggio ha bisogno del suo io epico non solo per l'analisi psicologica degli "a parte", ma anche per garantire la sua totalità formale. poiché la continuità dell'opera non scaturisce più dal dialogo stesso; quando i monologhi si succedono senza dialogo, il tempo si fermerebbe se un io epico non reggesse il suo corso. Ma l'epico-montatore di Strano interludio non deriva la sua ragion d'essere solo dal dramma psicologico. In lui continua ad operare anche il romanziere naturalista, erede di Zola, che non ha più una parola da dire per i suoi eroi, e meno che mai una parola buona, e che si limita a registrare come un disco i discorsi esterni e interni che gli uomini gli forniscono nel quadro deterministico di leggi genetiche e psichiche.