Tramonto delle scene libere Ci si sbaglia se si crede che i più clamorosi successi teatrali vadano immancabilmente confrontati con i testi e gli autori studiati di norma sui manuali. L'autorevole Gustave Lanson poteva paragonare il successo di Cyrano solo con quello di Le Maitre di forges di Georges Ognet, Les Deux Orphelines di Adolphe d'Ennery e Eugéne Cormon o di Les Cloches de Corneville di Robert Planquette, un repertorio commerciale che - giusto per fermarci alle scene parigine - aveva collezionato centinaio di repliche, ma che oggi nessuno ricorda più. Imparagonabile, a questi livelli, lo schiacciante numero di rappresentazioni di Cyrano con le poche dell'ibseniano John Gabriel Borkman (1896), che, quasi in contemporanea, il 9 novembre 1897, fu rappresentato dal Theatre de l'Aeuvre. John Gabriel Borkman (1896), con Il costruttore Solness (1892) , Il piccolo Eyolf (1894), già dati dall'Aeuvre nel 1894-95, e il senile epilogo di Quando noi morti ci destiamo, che, al confine del secolo, nel 1899, avrebbe fermato la produzione di Ibsen, compone un gruppo abbastanza omogeneo di opere cospicue per scavo esistenziale e scabra poesia. Il pittore Edvard Munch ha giustamente definito il Borkman "il più potente paesaggio nevoso dell'arte nordica", eppure il capolavoro dell'estrema stagione drammaturgica di Ibsen - dapprincipio offerto dall'autore all'Odéon (con disapputno di Lugné-Poe) - ripiegava sul Theatre de l'Aeuvre, dopo che il secondo teatro di Francia si era per l'appunto rifiutato di prenderlo in considerazione. Questa volta, però, persino l'arcigno Sarcey - pur lagnandosi dell'insopportabile tecnica ibseniana (che "butta in scena figure che parlano degli affari loro come se noi ne fossimo al corrente", costringendo lo spettatore a ricostruire a posteriori e con fatica tutto l'antefatto) - ammetteva a denti stretti che i personaggi del Borkmann erano "stati studiati e resi con meravigliosa potenza" e che l'ultimo atto era di "alto livello". Per non smentirsi troppo, Sarcey si affrettava pure ad aggiungere: "Ibsen, invecchiando, si tira fuori dalle sue nubi. Se vivrà altri vent'anni, farà dei drammi che potranno passare nei nostri teatri come piéces francesi". Battute a parte, la vicenda di John Gabriel Borkman - banchiere fallito, disonesto, ma geniale, che dopo una penosa reclusione ed autoreclusione fronteggia l'irredimibile peccato della proprie esistenza, l'annientamento attorno a sé della vita dell'amore, a causa di una superomistica ambizione, e fugge nella notte, in un'assurda ansia di riscatto, per restare ucciso dalla "mano di ferro" del gelo - costituisce un dramma di sapientissima mirabile fattura. Se per l'ultima creazione sinfonica di Anton Bruckner (che del Borkman è quasi coeva) si è potuto scrivere che "l'oro spento della sinfonia ottocentesca" comincia a cedere il passo all'"ottone novecentesco", di quest'opera che è il testo tecnicamente più solido, più monumentale di Ibsen, nel quale balugina ancora l'"oro spento" della grande drammaturgia del XIX secolo, prossima oramai ad uno sfrangiamento delle sue forme. Sappiamo sempre troppo poco di come il Theatre de l'Aeuvre allestisse i propri spettacoli. Le scene del Borkman erano niente meno che di Edvard Munch, ma possiamo giusto immaginarcele "in parallelo alla sua pittura del periodo, che conferisce un'aura visionaria a singole figure, isolate nei propri ricordi e con un sentimento di avvolgente solitudine". Le cronache parlano di "messinscena in tutto e per tutto eccellente", nella cui cornice andava lodato l'ottimo protagonista incarnato dallo stesso Lugnè-Poe. Può darsi che il generale maggior favore della critica, in questa occasione, fosse anche propiziato dal maturato mutamento d'indirizzo nell'interpretazione simbolista, cui si accennava. Pare che a indurre Lugné-Poe a una maggior naturalezza, oltre ai moniti di Bang e dello stesso Ibsen, avesse contribuiti un polemico articolo di Georg Brandes del gennaio 1897, che aveva protestato che, in nessun teatro del Nord Europa, ci si sognava di "salmodiare"la drammaturgia del norvegese in una specie di monotono canto fermo o si avvertiva l'esigenza di recitarla nella tenebra, tanto più che, in essa, non c'era nessun simbolo da scovare, ma soltanto modelli reali. Con Brandes rivendicando un autore oggettivo e realista, i nordici evidentemente reagivano a quel simbolismo che aveva monopolizzato e trasfigurato Ibsen, ma ornai, dopo tante dure battaglie, anche Lugné-Poe era "stanco di ricomparire eternamente con i tratti dell'eroe lunare" e di scontrarsi con una critica maldisposta. Così, nella sua interpretazione, l'antico tono da sonnambulo si riaffacciò nell'ultimo atto, ma opportunamente, quando Borkman si presenta ormai solo come uno spettro. L'affermazione di John Gabriel Borkman, a un certo livello, si rivelò una specie di vittoria di Pirro, perché dal 1897, l'attenzione per gli autori nordici incominciò a declinare in Francia, tanto che, nel 1901, Maurice Muret avrebbe potuto sancire che "il polo era ormai passato di moda". Intanto il Theatre de l'Aeuvre aveva virato verso una nuova direzione, assecondando una "fase di ritorno al buon senso". Anzi, Lugné-Poe, proprio nel '97, si gloriava di "non dipendere più da nessuna scuola" e - in nome dell'"evidente contraddizione che sussisteva tra il teatro di Ibsen e le teorie simboliste" - si poneva in polemica rottura con quel movimento, che accusava (con l'ovvia eccezione di Maeterlinck) di essere drammaturgicamente sterile. Nel 1898 muore Stéphane Mallarmé, forse il più radicale teorico del simbolismo. Mallarmé aveva celebrato una smaterializzazione del teatro, sostenendo che - fatto salvo il sublime della danza che, sola, ha bisogno di uno spazio reale o della scena - un libro basta ad evocare ogni piéce. L'anno dopo, s'interrompeva momentaneamente l'esperienza del Theatre de l'Aeuvre, "divenuto assai povero a causa delle sue virtù", com'era costretto a dichiarare Lugnè-Poe. Il Theatre Libre invece aveva chiuso i battenti nell'aprile del 1896, ma Antoine l'aveva abbandonato dal 94. Anche nel suo caso, i motivi della crisi erano stati essenzialmente economici, ma - come nota Thalasso - alla fin fine storici: "Il Theatre Libre aveva fatto il suo tempo. Era nato per scalzare e per demolire. Aveva scalzat e demolito. Compiuta la sua missione, rientrava nell'ombra". Per Antoine si sarebbe dischiusa comunque una lunga ed importante carriera teatrale, mentre Lugné-Poe avrebbe accompagnato o sostenuto con discontinua generosità, diversi innovatori della scena del Novecento, ma almeno la fase più dirompente del lavoro di questa coppia di artisti si concludeva effettivamente in questi anni.