Oltre la rappresentazione Come abbiamo avuto motivo di sottolineare in altra occasione, il Novecento, in arte, non è solo l'epoca dell'astrazione e della forma pura; è semmai il secolo che accosta veloci contrasti, dissoluzioni e restaurazioni, espressionismi e neoclassicismi, fermo che, al suo cuore, le opere e le costruzioni estetiche - o per esteriore dissociazione o per ambiguità intrinseca o per urgenza d'ironia - prospettano un relativismo strutturale ovvero l'impossibilità di uno stile nella sostanza cogente o vincolante. Insomma, il Dio Selvaggio del Novecento è anche un Dio promiscuo o proteiforme e tale sua natura si rivela proprio nel rapporto che si instaura tra Stanislaviskij e Antòn Checov - l'autore proverbialmente più emblematico dell'avventura del Teatro d'Arte - all'insegna di un intenzionale realismo, che presenta un'esteriorità di scrittura drammaturgica e scenica dichiarata e puntigliosa, ma che, nella sua manifestazione, sottintende poi la disgregazione pressoché puntinistica di dialoghi e personaggi, nonché una curvatura ambiguamente tragicomica delle trame. Si è osservato che la "lunga crisi della parola in teatro", che, al di là di Strindberg, Jarry e degli esperimenti dadaisti, nel secondo dopoguerra, metterà capo ad una drammaturgia dell'Assurdo, ha individuabili radici proprio nel trattamento del dialogo checoviano: "la perdita di significato delle parole in teatro" - ha scritto Lorenzo Arruga -, che Pirandello denuncerà (senza tuttavia riuscire a sottrarsi al fascino del verbo scenico che dominava da maestro), "ha proprio in Checov la sua esatta prima manifestazione. I suoi personaggi, infatti, ancora appartenenti al dramma naturalista ed alla commedia borghese, si comportano come se le frasi avessero un'importanza decisiva, una forza significante; invece il pubblico avverte che tutto si è vanificato". Dal punto di vista dell'attore, proprio Stanislavskij osservava che Checov offriva per lo più agli interpreti "piccole parti senza filo" [...] Ti vengono in mente singole parole di un'opera, di una scena...Ma strano: quanto più ti abbandoni alla memoria, tanto più ti vien voglia di pensare alla parte". Rileggendolo, il dramma checoviano fa affiorare "strati profondi", ma soprattutto induce l'attore ad "essere, cioè, vivere, esistere, procedendo lungo l'arteria principale dell'anima, profondamente nascosta all'interno". I drammi di Checov - al di là della storia della letteratura o della fede stessa di Stanislavskij nella necessità di appoggiarli a una "verità esterna" di allestimento - sono quindi essenziali, nel contesto novecentesco, soprattutto per questa spinta verso un teatro di compiuta presenza dell'essere, che tende a scindersi dal mero recitare o rappresentare. Si tratta di una tendenza che - tramite Stanislavskij - avrà riverberi addirittura in Jerzy Grotowski e ancora in varie manifestazioni del teatro performativo contemporaneo. Fra il 1898 (con la prima del Gabbiano) e il 1904 (anno di rappresentazione del Giardino dei ciliegi e di morte del drammaturgo), le opere di Checov - senza che spesso esistesse un'apparente intesa e concordia d'interpretazione fra l'autore e Stanislavskij - aprirono, nella screziata ricerca del Teatro d'Arte, un filone non esclusivo, ma certo assai sentito: la linea realistica interiore "dell'intuizione e del sentimento".In parallelo, si metteva in evidenza uno dei fenomeni più eclatanti nella modernità di dissoluzione del dramma, il quale - secondo una famosa analisi di Peter Szondi - finirebbe per sciogliersi, in Checov, nella lirica e segnatamente nella "lirica della solitudine" con un "ritiro formale del dialogo che conduce necessariamente all'epica". In particolare, Le tre sorelle (1901) appaiono il dramma in cui "un dialogo inessenziale trapassa in una serie di soliloqui essenziali". E' vero che Checov pensava soprattutto di scrivere commedie di uomini comuni basate sui "fenomeni normali della vita, anche se non fanno né ridere né piangere", e che protestava per certe inclinazioni tragiche o per l'inspessimento naturalistico (specie sul piano fonico) delle regie di Stanislaviskij: " Che succederebbe se si tagliasse via il naso", in un ritratto, " e lo si sostituisse con un naso vero? - chiedeva ironico il drammaturgo - Il naso sarebbe di un realismo perfetto, ma il quadro sarebbe rovinato". Checov credeva piuttosto in un teatro di sottrazione ("la scena riflette la quintessenza della vita: niente di superfluo dovrebbe essere posto in scena") e - come preciserà in uno schizzo autobiografico del 1899 - era convinto che "in arte le convenzioni non permettono sempre una piena adesione ai dati scientifici", ma che, se lo spettatore deve inevitabilmente trovarsi di fronte ad una convenzione, è opportuno che abbia almeno la sensazione che l'autore possieda la competenza dei fenomeni che presenta. Giocare però semplicisticamente il drammaturgo contro il troppo naturalista Stanislavskij non fa comprendere la difficile partita stilistica che, di volta in volta, si impostava in teatro, sul piano della definizione del concetto di realtà (e non solo), quando si allestivano i copioni checoviani. Per esempio, nel caso delle Tre sorelle, composto appositamente per il Teatro d'Arte, Checov, più che mai convinto di avere scritto "una commedia allegra", insisteva "perché le scene di vita quotidiana fossero le più veritiere possibili" e, per esempio, "nella scena in cui compaiono gli ufficiali di artiglieria", chiedeva che, alle prove, fosse presente "un colonnello d'artiglieria suo conoscente", oltre ad esigere che "i rumori dell'incendio (il campanello dei pompieri) fossero molto credibili". Così almeno testimonia Nemirovic-Dancenko, eppure tutto ciò non bastava per individuare la giusta cifra di interpretazione, finché almeno, non si formò l'idea che gli uomini di Checov "non esaltano affatto la propria angoscia, ma, al contrario, cercano l'allegria, il riso, la vivacità: vogliono vivere e non vegetare". Stanislavskij sarebbe, infine, arrivato a riconoscere che le opere checoviane avevano soprattutto liberato il teatro dell'ossessione dell'azione esteriore, essendo se mai ricche di una "complessa azione interiore", persino "nella inazione dei personaggi", realizzando in tal modo anche le condizioni di una purificazione di tutto quello che può, nel'interpretazione, definirsi "pseudoscenico". Al Teatro d'Arte, non erano esclusi raddoppiamenti della funzione registica e, a un certo punto, fu determinante l'intervento di Nemirovic-Dancenko (culturalmente e umanamente più vicino a Checov di Stanislavskij), che venne in soccorso del suo collega, riuscendo a sbloccare la crisi artistica che un copione come Le tre sorelle aveva innescato. Insieme, i due registi mirarono soprattutto all'"atmosfera realistica della produzione", nel senso esistenziale di una "creazione artistica sulla scena delle verità della vita viste attraverso il prisma della visione di Checov", ma, alla fine, affrontarono il suo dramma più compiuto - tipicamente fondato su "individui soli, ebbri di ricordi, che sognano il futuro" - con "un lavoro sinfonico del tutto sviluppato in termini armonici" con "ogni elemento logicamente integrato" al fine di evidenziare un'idea portante: "la lotta interiore dell'uomo contro il dominio della trivialità". Lo spettacolo sarebbe andato in scena il 31 gennaio del 1901 e Maxim Gorki l'avrebbe definito "musica, non recitazione", a significare che, anche in questo caso, il fulcro dell'operazione era soprattutto la ricerca di un ritmo, di una pulsazione esistenziale, pur partendo da un realismo scenico di sostanza. Nel primo atto, le tre sorelle Prozov, l'insegnante Ol'ga, Masa e Irina, con il fratello Andrej Sergeevic, vivono da tempo in una città di provincia, dove il padre, morto da un anno, comandava la guarnigione. Stanche della loro piatta esistenza, contornata dalla frequentazione di altrettanto annoiati ufficiali, sognano di tornare nella loro città natale: "A Mosca, a Mosca!" è il leitmotiv del dramma. L'arrivo del nuovo comandante Versinin, visionario propugnatore di utopie di progresso, ma infelicemente sposato, scatena la crisi di Masa, stanca dello scialbo marito professore, mentre Andrej dichiara il suo amore a Natasa. Stanislavkij sviluppa questa parte in termini particolarmente luminoso e quasi gioiosi, attraverso un'evidenziazione di una complessa colonna sonora naturale e musicale, degna di un'autentica "partitura", al fine di dare concretezza e respiro alle ambizioni di ritorno ad una vita diversa, di rinascita da quell'asfittico microcosmo. Nel secondo atto, però, "la trivialità dell'esistenza s'impone e sommerge i progagonisti". Un anno dopo, infatti, ritroviamo Andrej e Natasa sposati con un bimbo, ma l'uomo non è riuscito ad affermarsi all'Università di Mosca e ora fa l'impiegato, sottoposto per di più all'amante della moglie. Fausto Malcovati ha sottolineato come la regia del Teatro d'Arte si caratterizzi per un sapiente "uso degli oggetti e la dilatazione dei piani spaziali" e come la dettagliata proliferazione in scena dei giochi del bambino (occasionalmente manipolati dai personaggi adulti) invada la stanza di Irina e dimostri in parallelo il debordante potere materno di Natasa su tutta la casa dei Prozorov. Frustrato, Andrej si rovina al gioco, mentre Irina, impiegata dei telegrafi, sogna un trasferimento a Mosca. Stanislaviskij lavora, su questi particolari, su tonalità prevalentemente cupe e , al fine di rendere quel senso di disagio che ci è introdotto in casa, nel lungo notturno del secondo atto, c'è un continuo gioco di luci accese e spente di diversa intensità (candele, sigarette, lampade a petrolio) che segmentano la scena e isolano i nuclei narrativi. Suggestiva l'irruzione delle maschere di carnevale (che l'imperiosa Natasa respinge): Stanislaviskij realizza "una potente scena muta", facendole apparire chiassose, ma sempre più disorientate, nel loro emblematico squallore di "tristi maschere di provincia, infagottate in pellicce, con miseri cappellucci e sbilenchi nasi finti". Se il secondo atto mette in evidenza l'irriducibilità di aspirazioni e destini esistenziali, Stanislaviskij riteneva comunque importante mostrare che gli uomini non si arrendono e che al contrario la loro sete di vita è intensificata piuttosto che placata dalla frustrazione. Il terzo atto vede, tuttavia, "l'annullamento completo di ogni speranza di un'esistenza che realmente combaci con i sogni", anche se nei protagonisti permane una sorta di "fede estremamente altruista in un futuro migliore per l'umanità". "In questo atto bisogna dare, appena si può, una sensazione di nervosismo e di ritmo serrato - prescrive Stanislaviskij - Non usare inutilmente le pause. I passaggi, i movimenti di tutti sono veloci e nervosi". Così, dopo altri due anni, scoppia in città un incendio notturno e Ol'ga si prodiga per portare soccorso alle vittime; quindi cerca di sbloccare gli stagnanti rapporti familiari, spingendo Irina a sposare un ex ufficiale (che la sorella non ama), mentre Versinin sta per essere trasferito. In quest'atto, sono particolarmente significativi gli interventi di Nemirovic-Dancenko, che comunque mette mano in diversi punti dello spettacolo, di norma "rigenerando l'azione al fine di sciogliere la veloce dinamica del dramma" e, una volta fissato questo ritmo essenziale, qui attenua malinconicamente (su richiesta dello stesso drammaturgo) la densità della colonna sonora, predisposta da Stanislavskij, per l'incendio e volge la scena in cui Masa dichiara la propria passione per Versinin (contro il parere dell'attrice Ol'ga Knipper, che sarebbe diventata a breve moglie di Checov) in una chiave intima.< Durante tutto il quarto atto - prescrive Stanislavskij - "in vari posti cadono dall'alto foglie gialle" e, in questa atmosfera autunnale, la guarnigione si congeda. Andrej è sempre più alienato; Ol'ga solo assorbita dalla scuola; Masa si congeda con commozione da Versinin, mentre il marito, pur consapevole del tradimento, continua a trattarla con tenerezza; Irina spera di evadere, sposando infine l'ex ufficiale, ma costui soccombe in un duello. Il suo corpo non fu esibito in scena dal realismo pudico di Stanislaviskij, non solo per motivi estetici, ma anche perché, per quanto possibile, il regista si era ripromesso di "non enfatizzare la crudeltà del dramma, sottolineando essenzialmente i sentimenti affermativi esposto al principio" dello spettacolo e volendo riconoscere a Checov, dopo tanto impegno interpretativo, di avere scritto davvero una commedia.