L'arte e la routine WL'Arte non ha nulla a che fare in questa pena; è del mestiere che si soffre, il mestiere, il mestiere...", così, nei primi anni del Novecento, si esprimeva Eleonora Duse, forse l'attrice più individualista del teatro italiano, ma anche la più inquieta e insoddisfatto, certo, quantomeno a tratti, la più affascinata dall'"aspetto sperimentale" della scena. Dopo la rottura nel 1904 con D'Annunzio - con il quale per quasi un decennio aveva intrattenuto un intenso sodalizio sentimentale ed artistico -, l'attrice si era impegnata in una collaborazione con Aurelien Lugnè-Poe, soprattutto all'insegna di Ibsen. In questa fase, la Duse era particolarmente attratta dal personaggio di Rebecca in Rosemersholm (1886), uno fra i drammi ibseniani più simbolici, che serbava "in un cantone del core da anni". Così, sempre trascinata dalla buona forza dell'autore norvegese - dopo aver lanciato a Trieste Romersholm , nel dicemnre del 1905 -, già l'anno dopo pensava ad un riallestimento dello spettacolo in collaborazione con Gordon Craig, figlio dell'attrice Ellen Terry e compagno della ballerina Isadora Duncan (due artiste legate alla Duse). Non era (e non sarà mai) facile, per Craig, nonostante la crescente considerazione internazionale, vedere realizzati su un palcoscenico i propri progetti. Per la Duse, Craig aveva già lavorato a distanza sulle scenografie per l'Elektra di Hugo von Hofmannsthal, che non sarebbe mai stata allestita, e - allorché incontrò di persona l'attrice a Berlino nell'autunno del 1906 - aveva cercato, invano, di collaborare con Otto Brahm e Max Reinhardt. Craig - come sappiamo - era il teorico di un'idea assolutamente accentrata della creazione scenica e riteneva che il dominio globale delle sue funzioni spettasse al regista, inteso come l'artista di teatro, un genio leonardesco che avrebbe consentito all'arte teatrale di diventare autonoma, di riconquistare "tutti i suoi diritti" ed essere "autosufficiente come ogni arte creativa", cessando di esistere come "una tecnica di interpretazione". Non molti - e men che mai personalità come Brahm e Reinhardt - erano disposti a cedere a Craig poteri assoluti, anche perché è facile parlare di regia novecentesca come realtà unitaria, ma esistevano diversissimi modi d'intendere, più ancora che cosa fosse, che cosa facesse un regista. In Craig troviamo "la regia come scrittura scenica ed invenzione", mentre in Brahm (radicato nel realismo) apparte un "sistema di produzione" e, in Reinhardt (che da Brahm si era emancipato), una "realizzazione delle infinite potenzialità della scena", sganciata da un ambizioso sistema teorico, tanto da manifestarsi in un abilissimo artigianato. A questo punto, neanche sulla Duse Craig doveva riporre grandi speranze, se consideriamo quanto era stato frustrante il suo inutile lavoro su Elektra, ma, inopitatamente, con l'attrice italiana, se non si fecero grandi passi in avanti in direzione della regia artistica o assoluta, si aprì quantomeno uno spiraglio sul fronte concomitante di una scenografia quasi intesa come surrogato della messinscena. Come ci riferisce Isadora Duncan nella sua autobiografia (fonte da utilizzare con una certa prudenza), proprio dai colloqui berlinesi con la Duse - sempre più "affascinata ed interessata" dalle idee dello scenografo sul teatro - scaturì il proposito di un riallestimento di Rosmersholm per le repliche fiorentine; in tal modo, "Craig avrebbe realizzato la sua opera e la Duse avrebbe avuto un allestimento degno del suo genio". Se dobbiamo credere alla Duncan - sin dal principio, in funzione d'interprete fra i due artisti che non avevano una lingua in comune -, ella avrebbe esercitato un ruolo di mediatrice, che, "per una santa causa", cercava di conciliare le concezioni, piuttosto contrastanti, dei due interlocutori. Una commedia degli equivoci che si sarebbe trascinata sino a Firenze: Nella prima scena di Rosmersholm, credo che Ibsen descriva un salotto "confortevolmente ammobiliato all'antica". Craig però preferiva vedervi l'interno di un imponente tempio egizio, con un soffitto enormemente alto, che si protendeva verso i cieli, e con pareti che si perdevano in prospettiva. Tuttavia, a differenza dei templi egiziani, sul fondo c'era l'ampio riquadro di una finestra. Nella descrizione di Ibsen, la finestra dà su un viale di antichi alberi, che porta verso un cortile. Craig aveva concepito un'apertura di dieci metri per dodici, che dava su un paesaggio fiammeggiante di gialli, di rossi, di verdi, che avrebbero potuto evocare un paesaggio del Marocco, ma in nessun modo un vecchio cortile. Eleonora, alquanto sconcertata, diceva "Io vedrei una finestra piccola. Non può essere grande". Al che Craig tuonò in inglese: "Dille che non voglio che nessuna maledetta femmina interferisca nel mio lavoro!" Io sommessamente le traducevo: "Dice che è ammirato dalle sue opinioni e farà di tutto per venirle incontro".. Nonostante questi trucchi, al fine di evitare ogni possibile interferenza, pare che Craig desse "l'ordine di tenere fuori dal teatro la Duse", che restò affidata alla premurosa compagnia della Duncan. A Firenze, tuttavia, Craig si rese subito conto che la Duse (o l'organizzazione del teatro italiano dell'epoca) non era in grado di fornirgli strumenti adeguati. lo scenografo deve infatti notare: "Mi fu chiesto di fare le scene ed i costumi per Rosmersholm. Accettai, la Duse mi promise operai; non me ne trovò. Ne trovai qualcuno io, e compimmo l'impresa [...]. La Duse è stata incapace di aiutarmi! Eppure è in Italia, è italiana, è regina del teatro italiano!". Dopo giorni febbrili di assorbente lavoro, Craig fu un grado di mostrare il risultato. Racconta la Duncan: Oh, come descrivere ciò che apparve ai nostri occhi rapiti, esterrefatti? Posso parlare di un tempio egizio? Nessun tempio egizio ha mai rivelato tanta bellezza. Nessuna cattedrale gotica, nessun monumento ateniese. Non ho visto mai una simile visione di bellezza. Attraverso vasti spazi blu, armonie celestiali, linee ascendenti, altezze colossali, l'anima era attirata verso la luce di quella grande finestra, che non mostrava un viale, ma l'infinito universo. Dentro questi spazi blu c'era tutto il pensiero, la meditazione, la pena terrena dell'uomo. Oltre la finestra, tutta l'estasi, la gioia, il miracolo della sua immaginazione. Era questo il salottino di Rosmersholm? Non so che ne avrebbe pensato Ibsen. Può darsi che, come noi, sarebbe rimasto anche lui senza parole, rapito. Craig aveva creato un'altra forma di bellezza, applicando alla scenografia un principio personale da lui chiaramente enunciato: "Le mie scene non nascono soltanto sulla base del testo da rappresentare, ma muovono da un ampio procedere di pensieri che il teatro stesso, o anche altre opere del medesimo autore, hanno evocato in me". La Duncan - con la retorica liberty, con cui immancabilmente tutti parlano della Duse - descrive l'emozione dell'attrice, che di fronte a Craig ed ai suoi attori schierati (e, parrebbe, ostili a certi esperimenti), si lasciò andare a una temeraria affermazione: "Ho avuto in sorte d'incontrare questo grande genio, Gordon Craig. Ora intendo dedicare il resto della mia carriera (sempre, sempre) solo a far conoscere al mondo il suo grande lavoro [...]. Soltanto con Gordon Craig [...] noi, poveri attori, potremo liberarci da questa mostruosità, da questo ossario, che è il teatro d'oggi". "La signora è entusiasta", ci conferma il diario del direttore di scena Guido Noccioli, che ci presenta la scenografia di Craig dal punto di vista di chi operava dietro le quinte. In data 4 dicembre 1906, leggiamo infatti: Giornata terribile. Prova della nuova scena per il Rosmersholm, il dramma di Ibsen. La Signora adora questo lavoro. La scena nuova di cui parlo è ideata da un giovane pittore inglese: Gordon Craig, figlio naturale del grande attore Irving Craig. E' una scena strana, tutta verde e illuminata da 10 riflettori. I mobili sono verdi, di tela eguale alla scena: in fondo una gran porta a vetri da sur un paesaggio che ricorda stranamente quello dell'isola dei morti. Un'altra porta grande è coperta da un velo blu. Altri teli sono ai fianchi. Un sogno! Piacerà al pubblico? La domanda era tutt'altro che illecita e il programma di sala, peraltro, metteva le mani avanti con una nota dello stesso Craig: Il realismo è soltanto descrizione; l'arte è rivelazione. E perciò nel mio scenario per questo dramma ho cercato di evitare qualsiasi realismo. Qui non siamo in una casa del ventesimo secolo costruita da un nostro architetto e fornita di mobili scandinavi; Ibsen non ammette tali condizioni. Non pensiamo all'epoca; lasciamo il mobilio ai musei e ai negozianti d'antichità; qui occorre usare le facoltà più intime della nostra anima. Il senso comune deve rimanere fuori con l'ombrello e il soprabito nel guardaroba. Stiamo per entrare in Rosmersholm, la casa degli spiriti, che non appartiene a nessuna epoca e non è di nessun stile. Qui le usanze e il vestiario non hanno importanza. Badiamo unicamente ai colori onde l'anima si tinge nell'esperienza della vita, roseo, grigio, secondo quel che vuole il sole o la luna; tenebroso o luminoso secondo quel che vogliamo noi. Al levarsi del sipario di Rosmersholm, il 5 dicembre 1906, al Teatro alla Pergola, la Duncan parla di "un unico sussulto di ammirazione". Verosimilmente, sarà anche di stupire, è un fatto però che, nelle recensioni, la meravigliosa scenografia passò pressoché inosservata, con l'eccezione del "Marzocco" del 9 dicembre: L'allestimento scenico di Gordon Craig, un giovane pittore inglese di promettente avvenire, parve, pel suo sapore esotico di realtà lievemente fantastica, bene intonato, con le sue sinfonie verdi-azzurre, alle vicende scandinave di Rosmersholm. Perché, nel mirabile dramma è anche un'impronta tutta locale, un segno incancellabile della latitudine, come un involucro di particolari caratteri etnici, dei quali bisogna tenere il dovuto conto. A ben vedere, anche in queste benevole considerazioni, non prevaleva nessuna presa di coscienza di una rivoluzione del teatro, ma il solito pervicace riflesso condizionato di conferire al dramma scandinavo il suo retroterra esotico al fine di renderlo spiegabile ed appetibile. Rosmersholm fu comunque un successo e, sul diario di Noccioli, leggiamo: Firenze, 5 dicembre 1906 Recita di Rosmersholm, dinanzi al solito pubblico affollato. La Signora è nervosa fino all'inverosimile. Alle 7 è già vestita e truccata. Fa chiamare Orlandini, e prova con lui una scena del secondo atto, suggerendo molte cose nuove: poi fa chiamare l'attore Robert, e con lui riprova una scena del quarto atto. A un certo punto, si ferma e corregge l'attore, il quale risponde sempre: "Sì Signora...Sì Signora!...". La Signora continua ancora e l'attore ad un certo punto, si dimentica di dire "Sì signora" e dice, semplicemente "Sì, sì..:". La Signora lo fulmina con gli occhi, poi dice, duramente: "Lei mi manca di rispetto!" e va a chiudersi in camerino. Che strano carattere! La recita ha avuto esito buonissimo. Il lavoro di Ibsen non è certo troppo accepibile alle nostre masse, ma la recitazione della nostra grande attrice in questo lavoro, raggiunge altezze vertiginose. Al terzo atto dopo la magnifica scena del racconto il pubblico è scattato gridando "Brava!"; a recita finita Ella era di ottimo umore. Molti giornalisti sono venuti sul palcoscenico. La prestazione stessa della Duse, "vera di una doppia verità" (come scrive il Marzocco), sebbene non sempre assecondata adeguatamente dagli altri attori, pare si fosse vieppiù affinata e si differenziasse dalla precedente interpretazione del personaggio, sensibilmente condizionata dall'atmosfera che la scenografia di Craig aveva impresso al dramma. Secondo la Duncan, l'attrice aveva, in questa occasione, indossato "una veste bianca dalle larghe maniche che le ricadevano ai lati. Quando apparve assomigliava più alla Sibilla Delfica che a Rebecca West [...]. Si muoveva sulla scena come una profetessa che annunciava grandi eventi". Va da sé che, più che un coordinamento registico, qui si può solo parlare di sovrapposizione di un'attrice di "meraviglioso istinto" a una scenografia sperimentale e, in questa forma d'accostamento, s'intravedono anche i limiti dell'operazione che, sin dal principio, lo stesso Craig non aveva desiderato organica, intuendo le incompatibilità che avrebbero potuto fare abortire l'impresa. Craig sembra aver colto che la Duse era bramosa di nuovo, ma ancora fatalmente radicata nella tradizione capocomicale, oltre che notoriamente discontinua e volubile nella sua azione artistica. Comunque, anche Craig poteva dirsi soddisfatto per l'esito della messinscena italiana - uno dei suoi rari spettacoli portati in qualche modo a termine - e scriveva ad un amico che con la Duse stava fiorendo, "in gioia e libertà", vari progetti ibsenian per il futuro. Inutile osservare che se si fossero concretati, a quell'altezza temporale, avrebbero potuto imprimere una svolta imprevedibile al teatro europeo, ma non fu così. Nonostante l'interferenza negativa della Duncan - meno angelica di quanto si mostri nelle sue memorie e sempre più determinata a dissuadere Craig dall'occuparsi dei deprimenti drammaturghi scandinavi per dedicarsi semmai ai suoi balletti -, lo scenografo completò già verso fine gennaio i bozzetti per La donna del mare. Tuttavia, il carteggio tra la Duse e l'intellettuale fiorentino Carlo Placci fa comprendere che le tensioni, che si erano configurate sin dal principio fra l'attrice e Craig, perdurarono anche dopo il debutto di Rosmersholm. Del resto, la Duse era esitante di fronte alla determinazione di Craig di "rinnovare tutto il ciarpame teatrale", e aggiungeva: "L'ho desiderato pure io, ma non posso tutto d'un colpo farlo", anche perché erano ben noti "gli incagli che la routine crea all'arte". Di fatto, ad evitare la difficoltà che aveva probabilmente affossato l'ingombrante progetto di scenografia per l'Elektra, la Duse si era pure raccomandata che la scena per Rosmersholm fosse fatta di teleri facilmente piegabili e trasportabili. Questa cautela non fu sufficiente e seri problemi si delinearono allorché l'attrice, assecondando proprio la routine dei comici italiani, dovette lasciare Firenze e adeguare il suo spettacolo alle più banali esigenze di tournèe. Già a Genova, il 23 dicembre, la Duse trovò la scena adattata e rimpicciolita e chiese, preoccupata, il consiglio di Craig per le recite a Nizza, previste in febbraio: "la scenografia non va. Venite immediatamente", gli avrebbe telegrafato. Giunto a Nizza, Craig trovò la sua imponente scenografia ridotta e storpiata. Ricorda Noccioli che "seguirono grandi scenate col macchinista, con l'elettricista, con l'amministratore, il direttore di scena, il trova-robe [...]. Quante insolenze sono volate!". Considerate tutte le tensioni che avevano caratterizzato la collaborazione con la Duse, una rottura sembrava ormai matura. Secondo la Duncan, l'attrice non avrebbe tollerato una rissa così indecorosa e avrebbe messo Craig alla porta, dicendo: "Se ne vada. Non voglio vederla mai più!"- E così ebbe fine l'intenzione di consacrare tutta la sua carriera al genio di Gordon Craig. "Come finiscono con l'essere tutte uguali" le grandi donne del teatro, alla fine, capaci solo di affidarsi a chi le trascina "a profanare la loro cosa più sacra, il palcoscenico", annotava sconsolato Craig sul suo diario, mentre la Duse ritornava ai suoi allestimenti più modestamente ammobiliati e Lugnè-Poe si dava da fare invano a reclutare qualche pittore norvegese "per corredare di una scenografia autentica le varie interpretazioni ibseniane dell'attrice". L'ipoteca etnico-realistica era ancora tenace, come l'interesse del grande attore alla propria centralità nello spettacolo. Neanche la Duse poteva o voleva fino in fondo superare questi limiti, eppure il suo tentativo di collaborazione con Craig resta il sintomo di un'insoddisfazione strisciante che percorreva a corrente alternata la scena italiana e - secondo Ferruccio Marotti - un evento che spinse senz'altro lo scenografo a definire la propria "posizione antidecorativa", derivante "dal fatto che egli era riuscito a cogliere l'essenza spaziale attraverso uno studio rigoroso delle proporzioni e della prospettiva scenica", fissando in tal modo un "punto di partenza per quella ricerca dell'intera realtà poetica e spaziale dell'oggetto al di là delle leggi temporali, che sarebbe stata - di lì a poco - una sua scoperta fondamentale del teatro". Un'ultima conseguenza del rapporto con la Duse fu che Craig, radicatosi a Firenze - oltre a pubblicare la rivista "The Mask" e a organizzare una School for the Art of the Theatre (che si dissolverà presto a causa della prima guerra mondiale) -, cominciò a disegnare gli screens, "le mille scene in una", che sperava potessero interessare anche a D'Annunzio e che avrebbe cercato di applicare in un altro allestimento problematico, Amleto per il Teatro d'Arte di Mosca. Anche qui, però, nel 1912, dopo laboriosissime consultazioni, sarebbe stato tradito - questa volta in chiave psicologica e tramite un profondo rimaneggiamento del progetto originario ridotto a "una monumentalità fine a sé stessa, [...] addirittura parodistica" - da Stanislavskij e dai suoi collaboratori: "Hanno preso i miei screens - commentò Craig -, ma hanno tolto allo spettacolo la mia anima". Il teorico della regia assoluta sperimentava immancabilmente le mortificazioni della regia possibile e amputata.