Una danza a due dimensioni A partire dal maggio del 1909, le stagioni parigine dei Ballets Russes di Sergej Djagilev rappresentarono l'esplosione di qualcosa insieme di esotico e inatteso, divenendo uno degli elementi più provocanti di rinnovamento della scena dell'epoca. Così, "La Revue de Paris" del 15 luglio 1910 parlava, quasi con stupore, di una compagine di artisti che operava all'insegna dell' "amore e della sincerità" perché la "barbarie russa" confliggeva con l'artificialità del resto d'Europa: "Quel che avviene oggi in Russia è pari a quello che è avvenuto in Italia, allorché l'ideale antico ha inebriato il cervello dei toscani". La percezione, insomma, era una specie di rinascimento, anche se nei termini di qualcosa di arcaico e di spontaneo che veniva a modellare il moderno. Di fronte a Le sacre du printemps di Igor Stravinskij, nel '13, Jacuqes Rivet ammetteva che l'allestimento "segnava una data, non solo nella storia della danza e della musica, ma in quella di tutte le arti. La sua bellezza deborda da ogni lato". I Ballets Russes di Sergeij Djagilev - al di là del superamento del mito della danza romantica - fecero intravedere una brillante ed eclettica declinazione di quella fusione o contaminazione delle arti, che pulsava al cuore delle avanguardie del tempo, configurando una dimensione di dilatata teatralità. Per attingere questi esiti, l'illuminato impresario Djagilev legò alla compagnia musicisti come Stravinskij, Prokof'ev, Ravel e Poulenc; scenografi come Alexandre Benois, aprendosi nel tempo alla collaborazione di una strepitosa galleria di artisti quali Balla, Picasso, Braque, Derain, Matisse, Utrillo, Mirò, De Chirico ecc, che spesso, con la loro imponente personalità, intesero la scenografia come "un quadro ingigantito al pantografo". Djagilev puntò anche su coreografi di genio come Fokine, Massine, Nizinska e Balanchine, ma - ha osservato Giovanni Isgrò - era soprattutto il pittore che "indicava il tema del balletto che sarebbe stato oggetto del suo apporto scenografico e che si prendeva cura della messinscena intervenendo direttamente sulla creazione coreografica". Non a caso, al di là dell'astro stravinskiano, due artisti brillarono in particolare nel firmamento dei Ballets Russes, divenendone quasi i simboli. Il primo è appunto uno scenografo, il "Santo Padre Léon Bakst, pontefice della nuova religione" e "capo dello slavismo cosciente e organizzato, che si sovrappone in contrappunto rovesciato a ogni musica", come scrive un critico del tempo, Emile Vuillermoz. Il secondo è il danzatore Vaclav Nizinskij, singolare divo, sensuale ed ambiguo, che spiccava in un cosmo artistico tradizionalmente formato in prevalenza di stelle. Nizinskij realizzerà, a sua volta, alcune coreografie memorabili e segnatamente - in collaborazione con Bakst -, il 29 maggio 1912, al Theatre du Catelet, L'Apré-smidi d'un Faune su muscia di Claude Debussy (ispirato da Stéphane Mallarmè), "una vera e propria rivoluzione dentro il mondo del balletto", una creazione persino eccentrica nel pure screziato mondo dei Ballet Russes. Come tanto seminali eventi di spettacolo dell'epoca, anche L'Apres-midi d'un Faune - poco più di una decina di minuti di rappresentazione - esplose come uno scandalo. Un vaghissimo accenno di masturbazione (stilizzata) di un Fauno, che indossava un costume che restituiva l'impressione di una nudità animale, fu sufficiente ad accendere la miccia dei moralisti come dei soliti nazionalisti, che giudicarono la rappresentazione del tutto estranea allo spirito di Debussy e di Mallarmé. Decisamente più interessante comunque soffermarsi sullo shock estetico, in primo luogo, legato alla scelta di impostare il balletto in termini scenici bidimensionali, su un palcoscenico profondo appena due metri e mezzo e largo dodici. Ricostruisce Elena Randi: Basandosi sulle annotazioni coreografiche che Nizinskij stese qualche anno dopo, l'azione, piuttosto essenziale, vedeva il Fauno, che suonava il flauto e assaporava dell'uva, eccitarsi al sopraggiungere di sette ninfe, una delle quali si spogliava per il bagno. Il Fauno allora cercava di catturarla, ma le altre ninfe intervenivano, frustrando il tentativo. Il Fauno, dopo averle disperse, riusciva a trattenere la veste della ninfa che l'aveva tanto eccitato, portandosi sulla roccia l'indumento come feticcio dell'amata. Tanto [il fauno] quando scioglie la condizione di fissità, quanto le ninfe quando entrano in scena si muovono di profilo o, meglio, col busto frontale e la testa e gli arti di profilo, come le figure egizie, così da sembrare piatti, "spalmanti" contro il fondale [...]. Si spostano solo in orizzontale, come pitture animate ed eseguono rapidamente i cambi di direzione affinché siano poco percepibili i movimenti in cui, altrimenti, si smaschererebbe la volumetria. Tecnicamente, era l'opposto della danza classica. Si aggiunga che allo Chatelet il pubblico era relativamente lontano dal palcoscenico con una visione che accentuava "l'effetto prospettico di appiattimento dei danzatori contro il fondale, effetto rafforzato anche dall'illuminazione". Nell'insieme, la partitura del Faune non mirava a "restituire l'impressione dello spezzato", bensì a "mettere in rilievo la capacità articolativa di un corpo in movimento in ogni suo segmento". Con questa impostazione Nizinskij non poteva che costruire uno spettacolo accentrato, imponendo un controllo assoluto sulla partitura (non a caso, Emile Vullermoz lo definisce a pieno titolo "metteur en scene") e addirittura sule emozioni dei danzatori, che venivano conseguentemente appiattite, chiedendo loro "di sentirsi come fatti di legno o pietra, materiali da essere plasmati da uno scultore". La cifra dello spettacolo era data verosimilmente da questo imposto straniamento, che finiva tuttavia per acutizzare altri contrasti in essere nella rappresentazione. Infatti - come nota Vuillermoz -, la scena di Bakst (che pare non fosse del tutto gradita a Nizinskij) era "risolutamente disinteressata a ciò che accadeva sul proscenio", e, ancor di più, "la piacevole stilizzazione lineare delle attitudini non sarebbe stata sottoscritta da Debussy. Non ci sono angoli acuti nella sua partura". Il difetto o la forza (a seconda dei punti di vista) dello spettacolo non stava nell'armonica coesione delle sue componenti, ma nella frizione che s'ingenerava tra di esse; quindi, nel suo impavido allineare un arazzo lussureggiante e un po' fauve come fondale; una danza geometrica (in quanto tale scambiata per cubista); una musica impressionista. L'approccio a uno spettacolo tendenzialmente bidimensionale non solo era nelle corde dei Ballets Russes (i cui scenografi - come s'accennava - limitavano di norma il loro intervento a "un'esperienza narrativa" di natura pittorica), ma non era propriamente neppure nuovo. Nel 1905 Georg Fuchs - alfiere di un teatro rituale, nella Scena del futuro, ispirato da un'idea di dramma, inteso come "movimento ritmico del corpo umano nello spazio, organicamente sorto dal movimento orgiastico, entusiatico, di una folla in festa" - aveva proposto un impianto scenico di "scarsa profondità rispetto alla sua larghezza (circa da sei a dieci)", mirando ad abolire ogni scatola ottica, ogni panorama, al fine di ottenere "una configurazione dello spazio [...] il più possibile idonea a dei corpi umani in movimento, a unirli in un'entità ritmica e allo stesso tempo favorire il movimento delle onde sonore in direzione dello spettatore". Così, il principio non sarebbe stato più "la profondità prospettica del dipinto, ma il rilievo (peraltro anche ispirato ai "rilievi degli antichi"). Il Dio Selvaggio qui riappare come un dio danzante, che - tendendo alla fusione di modalità e spazi fisici e concettuale delle varie arti - ricostruisce l'unità dell'attore-danzatore, ripensando il nucleo partecipativo dello spettacolo, una volta di più, all'insegna del ritmo. Per venire a esperienze di bidimensionalità che Nizinskij poteva forse conoscere, va ricordato che c'erano stati vari esperimenti in tal senso, in area simbolista proprio in Russia, e che, in particolare, Mejerchol'd, nel 1906, aveva inaugurato il nuovo Teatro Drammatico di Vera Kommissarzevskaja con una regia di Hedda Gabler di Ibsen, nella quale ogni interprete doveva prestare al suo personaggio un costante contegno statuario: [il personaggio di] Brack imitava le movenze d'un fauno su un piedistallo, e Hedda, sedendo sulla poltrona ammantata di bianche pelli come su un trono, si atteggiava a regina impassibile. Essendo il fondale ravvicinato alla ribalta ed angusto quindi lo spazio d'azione, gli attori erano costretti a curare minutamente l'esattezza del gesto, l'eloquenza pittorica del portamento. E più che recitare, passavano di posa in posa come modelli, roteavano il corpo senza volgere il busto, slittavano a passi felpati come sul feltro d'una foresta, con un sussiego da cui le passioni, gli affanni trasparivano appena, sfioccandosi in fiacche vibrazioni, in sussulti, in sbavature di noia. Potremmo ritenere quindi la bidimensionalità dell'Aprés-midi d'un Faune una ricerca nello spirito del tempo, che taluni studiosi riportano a un'attenzione privilegiata da parte di Nizinskij alla pittura vascolare e ai bassorilievi greci arcaici e preclassici, piegata alla duplice intenzione di "una depurazione della materia" scenica "in eccesso" e dell'onnipresente "sintesi tra le arti". Certo, al di là di questo, c'era del nuovo in tanto antico e - su "Comedia Illustrè" del 15 giugno del 1912 - ci si spinge infatti a parlare di "cinematografia del basso rilievo", mentre la scena di Bakst viene riportata a Cezanne. D'altra parte - secondo Hanna Jarvinen -, L'Après-midi d'un Faune di Nizinskij realizzava propriamente ciò che, nelle altre arti, era stato fatto da parte dei modernisti: "mettere in dubbio le certezze di una forma espressiva".