Il realismo fantastico Evgenij B. Vachtangov, malato di cancro, moriva a soli 39 anni nel maggio del 1922. Nel 1911 era entrato a far parte del Teatro d'Arte di Mosca, dov'era diventato uno stretto collaboratore di Stanislavskij, direttamente incaricato dal maestro di approfondire e insegnare il suo problematico "metodo". Coinvolto nell'attività degli Studi che sorgevano dalla sperimentazione stanislavskiana e successore di Silerzickij, nel 1917, Vachtangov, che aveva sempre dimostrato una spiccata vocazione pedagogica, si trovò a capo di un laboratorio che portava il suo nome e, in seguito, sarebbe divenuto il Terzo Studio del Teatro d'Arte. Presto affermatosi come regista, Vachtagov realizza tuttavia i suoi allestimenti più memorabili e sperimentali nel 1921-1922, alle soglie della morte: Dibbuk di An-skij (31 gennaio 1922, Studio ebraico Habima) e Turandot di Carlo Gozzi (27 febbraio 1922, Terso Studio), con la quale il mito della Commedia dell'Arte veniva a innestarsi in quanto ancora del "metodo" stanislavskiano poteva essere accettato dal regista. Erano spettacoli fortemente dialettici: "Da un lato la gravezza dell'ala sinagogale - ha scritto Ripellino -, la liturgia delle mani aggrondate, dall'altro le levità d'un burlesco, pervaso d'un desiderio di sole. Da un lato l'incubo di un ghetto eterno, per cui si aggirano infausti pezzenti, dall'altro il faceto cinquettio delle maschere e un Oriente da albero di Natale" con "il piacere di mettere a nudo i sotterfugi del teatro, di prendere lo spettatore in una rete di arguzie, travestimenti, burlette, di proverbiare e cerimonie stoppose di una Cina illusoria, dimenticando l'arcigno funebrismo dei riti rabbinici". L'inquietudine dello stile di Vachtangov si palesa nelle pagine di appunti stilate nel marzo del 1921 nel Sanatorio di Ognissanti, che hanno tutto il sapore di una serrata resa dei conti con sé stesso: Mejerchol'd è superiore a Reinhardt, a Fuchs, a Craig, ad Appia. Il teatro di Stanislavskij è ormai morto e non risorgerà più. [...] Nei primi tormentosi tentativi di staccarmi dal cammino di Stanislavskij, un anno prima che egli cominciasse a parlare di ritmo e di plasticità, io stesso avevo afferrato il senso del ritmo, avevo capito che cosa è la plastica espressiva, che cosa è l'attenzione del pubblico, che cosa è la "scenicità", i caratteri scultorei e statuari, la dinamica, il gesto, la teatralità, le tavole del palcoscenico ecc. Oggi ho riletto il libro di Mejerchol'd Sul teatro e...sono rimasto allibito. Gli stessi pensieri, le stesse parole, sono espressi in maniera perfetta e comprensibile. Anche Vachtangov si scaglia contro il realismo scenico: "Muoia il naturalismo in teatro! [,,,] Il teatro della quotidianità deve scomparire", in nome di una nuova dimensione grottesca che racchiuda in sé il tragico e il comico. Vachtangov vorrà definire questa formula: "realismo fantastico" perché, una volta individuata "una vita autentica sulla scena", "la forma andrà cercata con la fantasia". Possiamo parlare di una conversione? Nel regista, a questa altezza temporale, si verifica come una decantazione del naturalismo in un discorso sulla presenza autentica ed energica dell'attore, non priva di riverberi etici vieppiù potenziati dalla Rivoluzione d'Ottobre (cui anche Vachtangov aderì con entusiasmo). Ciò si va a saldare con il recupero di forme tradizionali, popolari e minori di spettacolo. La sua Turandot, così, è qualcosa di più di una brillante rappresentazione convenzionale, tratta dalla Commedia dell'Arte filtrata da Gozzi, e diventa l'utopia di un'armonica "Forma Contemporanea", che deve aprirsi all'eternità e dischiudere agli attori e agli uomini la prospettiva di un'emancipatrice diffusa creatività che in continuazione si rinnova. Per Vachtangov, ma anche per altri protagonisti del teatro russo coevo, la Rivoluzione esalta e affina certi impulsi futuristi e spinge l'arte teatrale alla "trasformazione sia dell'artista che del pubblico in un nuovo corpo creativo - sociale e spirituale". D'altra parte, fin dal 1911, Vachtangov intendeva "espellere dal teatro il teatro. Dal dramma l'attore. Bandire il trucco, il costume"; insomma, "verificare il sistema" stanislavskiano per cancellare in esso "la menzogna", ma soprattutto "cercare la felicità nell'opera d'arte", dimenticando il pubblico. In questo, più che un abbandono della lezione di Stanislavskij, si individua un processo quasi genetico di purificazione del naturalismo. Vachtangov peraltro, con originalità, aveva sempre dimostrato interesse per il repertorio simbolista e preferito un lavoro con non professionisti, che attingesse il livello di una festa teatrale: "Se non c'è gioia non c'è spettacolo" e, nel momento in cui la gioia espressiva si manifesta, "non è necessario recitare. E' necessario solo eseguire i compiti del personaggio". Con Vachtangov le distinzioni fra un prima e dopo Stanislavskij non possono essere quindi troppo nette perché - come ha scritto Claudine Amiard-Chevrel - il suo doppio orientamento fra verità e festa scenica, "si manifesta in simultaneità nel corso degli anni" sviluppando una "riflessione estetica continua". Del resto, già nel 1916, Vachtangov insegnava ai suoi allievi, un chiave stanislaskiana, sia la sincerità sia la contraddittorietà del personaggi, ma anche che "bisogna amarli comuqne siano ed essere sopra di loro" lambendo le istanze di Mejerchol'd. Conversando con i suoi allievi nell'aprile 1922, Vachtangov ricorda che Stanislavskij "godeva del fatto che il pubblico non a teatro a vedere Tre sorelle , ma a far visita alla famiglia Prozorov"; con tutto questo, "voleva cancellare, una volta per tutte, la banalità teatrale", purtroppo aveva eliminato "con essa anche la teatralità autentica e necessaria, perché la vera teatralità consiste nel presentare in modo teatrale le opere di teatro". Il principio della realizzazione di questa autonoma sintesi pragmatica di abolizione della banalità in sintonia con la restaurazione della teatralità è individuato dallo stesso Vachtangov nell"esperimento" della messa in scena di Erik XIV di August Strindberg, rappresentato al Primo Studio il 29 marzo 1921. Con questo spettacolo - spiega il regista in un articolo dell'aprile dello stesso anno -, pur su taluni generali presupposti di Stanislavskij, lo Studio iniziava "un periodo di ricerca di forme teatrali". Scritto nel 1899 e tassello della lunga sequenza di Cjronicle-plays che, su traccia scespiriana, l'autore dedicherà alla storia svedese, il personaggio rinascimentale di Erik XIV era considerato da Strindberg il suo Amleto perché come lui "è pazzo o finto tale [...]; irresoluto, condanna ed abroga le sentenze; l'amico Orazio è l'amico Goran Persson - fedele fino alla morte; [...] Amleto era amato dalla "selvaggia moltitudine", Erik lo stesso: spregiatore della nobiltà e sovrano dei contadini". In questo sfaccettato monarca, Strindberg vorrà vedere soprattutto una delle manifestazioni drammaturgiche della propria concezione atomizzata del personaggio ovvero del "carattere senza carattere". Al principio del dramma - assai poco serrato ed ondeggiante come la personalità del suo lunatico protagonista -, la regina Elisabetta d'Inghilterra respinge la domanda di matrimonio di Erik, che, in stretta simbiosi con il suo confidente Goran Persson, seguendo un tortuoso e combattuto percorso politico, si spingerà a far uccidere in prigione i membri della famiglia rivale degli Sture e, abbandonato dai nobili, a legalizzare di fronte alla plebaglia la propria unione con l'amante Karin Mansdotter. Eril sarà infine deposto, facendo però subito esplodere le rivalità dei suoi avversari. Vachtangov scrive: Erik...Povero Erik. E' un poeta focoso. Un acuto matematico, un fine artista, un indomito sognatore condannato ad essere re. [...] Erik crea per distruggere. [...] Ora adirato, ora dolce, ora presuntuoso, ora ubbidiente, ora fedele a Dio, ora a Satana, ora estremamente ingiusto, ora genialmente comprensivo, ora impotente e smarrito, ora improvvisamente deciso, ora dubbioso, ora pensieroso. Dio e Inferno, fuoco e acqua, padrone e schiavo, un groviglio di contraddizioni. La scelta di questo testo - non certo fra i più noti di Strindberg - pare derivasse dal "vero e proprio culto" che, in Germania, la generazione degli espressionisti tributaba al drammaturgo svedese, per non parlare dell'occasione che poteva fornire per una riflessione rivoluzionaria sull'assolutismo. Di fatto, il metodo di regia di Vachtangov è tipicamente oppositivo e, in Erik XIV, punta sul contrasto "del mondo dei morti" (la corte) contro quello dei vivi ovvero della gente comune; uno schema che sarà riadattato nel Dibbuk. Ciò si riverberava in termini cromatici perché Erik e lar egina erano vestiti di nero e d'oro, i cortigiani avevano costumi geometrici (grigi, marrone, oro e argento), ma tutti gli altri al di fuori di questa cerchia, i "viventi" cioè , erano abbigliati con abiti studiati quasi "con precisione etnografica" e dai colori sgargianti. Truccatura e movimenti erano in sintonia: i "viventi" avevano espressioni e gesti naturali, mentre le sopracciglia del re erano zigzaganti e asimmetriche quelle della regina; insomma: "i volti lividi, la gestualità angolosa, le labbra serrate, i movimenti rari e contenuti". Vachtongov scrive: "Il tema del lavoro, il modo di recitare (il mondo dei morti: i nobili di corte, monumentalità, statuarietà, laconicità. Il mondo dei vivi: Mans, Karin, Max, passione, dettaglio), lo stile della scena e dei costumi, privo di qualsiasi manierismo, sono stati dettati dal senso di contemporaneità". Nell'insieme Vachtangov si confermava un regista che "evitava la ricchezza della pittura ad olio" perché "la sua ricchezza consisteva nella struttura dei contrasti grafici". Pare che l'accidentata gestazione dello spettacolo (anche a causa delle precarie condizioni di salute di Vachtangov) e certe resistenze interne alla sua compagnia rendessero difficile e non impeccabile il risultato finale. Tuttavia, almeno l protagonista, Michail, A. Checov entro in profonda sintonia con il regista, tanto da sottolinearne l'energia e le generosità dell'ispirazione: Quando lavoravo sulla parte di Erik XIV di August Strindberg al Primo Studio del Teatro d'Arte di Mosca, facevo molte domande al mio regista, Vachtangov, cercando di penetrare al cuore del personaggio e di afferrarlo tutto in una volta. Vachtangov lottò con sé stesso per molto tempo, sforzandosi di trovare risposte soddisfacenti alle mie domande. Una sera alle prove scattò improvvisamente in piedi, esclamando: "Questo è il tuo Erik. Guarda! Ora sono all'interno di un cerchio magico e non posso attraversarlo!". Con tutto il suo corpo fece un movimento forte, dolorosamente appassionato, come se cercasse di rompere un muro invisibile davanti a sé o di perforare un cerchio magico. Il destino, la sofferenza senza fine, l'ostinazione e la debolezza di carattere di Erik XIV mi divennero chiari. Da quella sera fui in grado di recitare la parte con tutte le sue innumerevoli sfumature per tutti i quattro atti dell'opera. La sua interpretazione, fondata sul gesto psicologico, sarebbe stata ricordata da un critico per "gli occhi abnormemente dilatati, l'intonazione calante e il moto nervoso delle mani che tradiva sofferenza e angoscia [...]. Erik impersonava la debolezza e l'impotenza stesse". E' stato scritto che "l'interpretazione di Erik da parte di Checov ne esaltò l'intimità puramente grottesca, conferendo un significato universale alla produzione di Vachtangov". E' verosimile che Vachtangov "enfatizzasse i tratti crudeli" della personalità di Erik e che forse addirittura forzasse la situazione dell'uccisione degli Sture mostrando il monarca in qualità di boia, mentre il testo in merito è più sfumato. Certo è, comunque, che Vachtangov intervenne sul finale dell'opera, rappresentando il suicidio del re, che in Strindberg è assente. Compiuto il suo destino, "dietro il trono c'è già il boia - conclude il regista -. Il potere regale che porta in sé la contraddizione prima o poi perirà. E' condannato anche lui.". Nell'insieme, Margareta Wirmark ritiene che "il dramma strindberghiano nella versione di Vachtangov si trasformi in un monodramma su Erik", mentre i personaggi di "Karin e Goran risultano spersonalizzati e resi come genuini rappresentanti del popolo. [...] Erik si frantuma fra contrastanti esigenze interiori. Goran e Karin rappresentano forze contrastanti insite nel suo ego, potenze di cui Erik stesso non è consapevole". Si trattava pertanto di un'interpretazione in chiave squisitamente espressionista, quantunque sia probabile che "la dimostrazione del fallimento della volontà umana, così essenziale per Strindberg, avesse minor rilievo in Vachtangov". D'altra parte, è proprio questo lo stile, con qualche accensione cubista, che informava anche le scenogragie di Ignati Nivinski: "il disegno del palazzo reale era caotico" e combinava differenti tipi di prospettiva, presentandosi come un inquietante labirinto. Per il resto, si segnalava un ricorrente acuminato leitmotiv grafico: "Frecce nella corona, nella spada, nei vestiti, nei volti, nelle pareti". Di norma, la pronunciata "stilizzazione esteriore permetteva agli attori di prendere posizione nei confronti dei loro personaggi e al pubblico di percepire tale giudizio", lanciando il segno premonitore d'"una nozione essenziale" di quello che sarà il teatro brechtiano".