Animatori e acceleratori Nel 1921-1922, Charles Dullin e Louis Jouvet lasciarono il Vieux Colombier, ma, il 6 luglio del 1927, con Gaston Baty, e Georges Pitoeff, firmavano il manifesto del Cartel des Quatre, con l'intento di non dissipare la lezione di Jacques Copeau e di continuare a opporsi alle formule del teatro commerciale. A quell'altezza temporale dirigevano rispettivamente il Theatre de l'Atelier, la Comédie des Champs-Elysées, lo Studio des Champs-Elysées e il Thèatre des Mathurins, presidiando una larga e prestigiosa area di quella che restava ancora, quantunque insidiata da Berlino a Mosca, una capitale mondiale del teatro. Il Cartel si componeva di artisti caratterizzati da un'indubbia differenza di temperamento, che non a caso si lasciarono programmaticamente le mani libere in campo estetico. Nel tempo, i quattro firmatari divennero figure significative e influenti anche a livello europeo, ma in certo modo limitate, sicché non è difficile sottoscrivere un giudizio che si era già fissato a cavallo fra gli anni Venti e Trenta: sono animateurs de theatre (come voleva Robert Brasillach) e "non già grandi rivoluzionari, bensì grandi evoluzionari, [...] capaci di imprimere un'accelerazione in una fase di lento progredire". Il loro limite fu peraltro rafforzato anche dall'adesione non strettissima e sempre personale, ma di fondo, al presupposto di Copeau che, nella prassi scenica, dovesse restare centrale la drammaturgia. Jouvet era convinto, infatti, che fosse "solo il testo a guidare la rappresentazione". Da qui (poiché, tranne Baty, furono tutti eccellenti attori) carriere legate soprattutto al connubio con determinati ruoli e certi autori. E' il caso, per Jouvet, della sapiente e famosissima resa del Dottorn Knock nell'omonima pièce di Jules Romains (1923) e, dal 1928, del suo rapporto con un drammaturgo come Jean Giradoux. Si potrebbero pure ricordare le interpretazioni di Armand Salacrou per Dullin, che si considererà sempre "l'esecutore testamentario dell'autore", pur essendo guidato dall'idea che si dovesse "interpretare la natura, senza imitarla" e pur ricevendo l'attestato di stima dell'allievo Artaud che il suo atelier era "un laboratorio di ricerche", particolarmente dedito allo studio dell'improvvisazione, nel quale riusciva a fiorire la lezione di Appia e Craig. Dei quattro firmatari del Cartel, Georges Pitoeff, ch'era arrivato in Francia dalla Russia nel 1914, era quello che aveva diretta esperienza del fermento antistanislavskiano nel suo paese d'origine e delle teorie di Appia e Jacques-Dalcoze: "Trasporre, oltrepassare la vita, è la grande questione della nostra arte", scriverà in un saggio sulla nuova regia. Adriano Tilgher, che si era recato a Parigi nel luglio del 1923, in un articolo sul "Mondo" del 9 ottobre, nel quale tastava il sensibilissimo polso teatrale di una capitale ancora dominata dall'autorevole lezione di Copeau, sottolineava comunque che Pitoeff non era un teorico e in merito alla regia sosteneva semplicemente che "ogni lavoro comanda la sua particolare messa in scena [...] Come maestri, Pitoeff riconosce Stanislavskij e Antoine, ma sulle scene le loro lezioni escono ora da me in altra maniera, ecco tutto"; sebbene di grande immaginazione, "Pitoeff è l'uomo di nessun principio". Anche Pitoeff, estimatore della lezione di Copeau, non rinunciava a una stretta collaborazione con l'autore e in fondo non era in contraddizione con la sua convinzione che, "allorché il dramma arrivava sul palco, la missione dello scrittore fosse terminata" poiché "spettava ad altri trasformarla in spettacolo", fermo che il regista aveva il dovere di "entrare in comunione con l'opera". Più legato alla teoria appare invece Baty, ch'era stato influenzato dalla "riteatralizzazione del teatro" predicata da Georg Fuchs ("Non si sottolineerà mai abbastanza l'importanza del suo sforzo" affermava). Spiega Tilgher che, per questo regista, il cui rigoroso lavoro al teatrino sperimentale della Baraque de la Chimére s'irradiava ormai sulle scene di Amsterdam, Stoccolma e New York, le opere che aspirano a rendere sensibile la vita complessa fuggitiva e taciturna dello spirito hanno [...] necessariamente bisogno di altro che della parola: e a porre lo spettatore al di qua o al di là della zona dell'intelligenza servono egregiamente la luce e la messa in scena, diretti a suggerire ciò che la parola non può tradurre. Il testo è la cosa principale, ma non è tutto [...]. Il teatro non è, dunque, solo letteratura, ma una sintesi di tutte le arti. In un celebre saggio del 1921, anche Baty, in qualità di regista puro, aveva contrapposto Madame la Scéne a Sire le Mot cioè all'"ipertrofia dell'elemento verbale", senza però - a ben leggere - svalutare l'importanza del verbo drammaturgico, che coincide propriamente con la parola che rende l'uomo umano ("Il testo è la parte essenziale del dramma [...] Il ruolo del testo a teatro è il ruolo della parola nella vita"). In una diffusa Breve storia del teatro , scritta nel 1932 in collaborazione con René Chavance, Baty avrebbe di conseguenza individuato nello sviluppo delle arti sceniche una corrente "teatrale", che valorizzava l'attore e lo spettacolo, contrapposta a un'altra che "riduceva l'arte drammatica a un genere letterario", per concludere, moderatamente, che "l'arte teatrale non assume tutta la sua grandezza, non diventa sé stessa, se non quando le due correnti si uniscono". E' interessante osservare che Baty collegava, comunque, strettamente queste contrastanti correnti anche alla fondamentale questione della definizione di uno spazio scenico moderno come superamento della sala all'italiana e della scenografia pittorica, persistente retaggio, per l'appunto, della tradizione esclusivamente "verbale" del teatro. Pure l'articolo di Tilgher aveva enfatizzato il grande fermento della scenografia degli anni Venti, dimostrando come si ponesse in parallela relazione (e persino confusione) con i destini stessi della regia. Di fronte agli estri registici parigini e alla dilagante influenza che continuavano a esercitare scenografi come Bakst, che predicavano ormai una tendenza architettonica della messinscena, nella quale "il mettere in scena deve essere della razza degli scultori e degli architetti", divenendo il colore "secondario e accessorio", il critico si chiedeva infine: e in Italia come stanno le cose? Il bilancio è negativo: "Purtroppo, da noi la scenografia e l'arte della messa in scena è ancora ai primi balbettii" e tutto si risolve in un vieto realismo o nell'adozione di "qualche panneggiamento colorato o nero". Mancano soprattutto gli artisti della messinscena. Tilgher guarda alla genialità del teatro italiano dell'epoca, lontano - come ci confermano altre fonti - da Craig a Reinhardt (e, abbiamo visto da Appia), ma non ricorda, per esempio, che aveva regalato al mondo fior di scenografi di estrazione futurista come Enrico Prampolini, Giacomo Balla, Fortunato Depero e Ivo Pannaggi. E' vero che le stesse parole regia e regista entreranno nell'uso nazionale soltanto attorno al 1931-1932, ma - senza far pesare gli esperimenti di D'Annunzio o di una figura, sempre sottovalutata, come Anton Giulio Bagaglia (fiancheggiatore del futurismo e, fra il 1922 e il 1943, divulgatore nella penisola della più avanzata drammaturgia novecentesca) - noteremo che, in altri scritti, allo stesso Tilgher non sfugge la penetrante regia implicita nell'opera di Marinetti o di Pirandello.