Tragica America Il 29 ottobre 1929 esplose il "Big Crash" della borsa di New York, sintomo di una depressione economica che serpeggiava da qualche tempo e che si sarebbe protratta, rovinosa, almeno sino al 1932. Tra le tante fortune che la crisi spazzò via, anche quelle dei sostenitori dei Provincetown Players, punta di diamante di quel Little Theatre Movement d'avanguardia, attivo in America, su suggestione europea, a partire dal 1909. Nati nel 1915 in Massachussets, già l'anno successivo i Provincetown Players si erano stabiliti al Greenwich Village di New York, con il programma di lanciare nuovi autori "con intenti drammatici sinceri, poetici e letterari" senza sottostare all'"interpretazione del gusto del pubblico da parte del direttore commerciale" e sperimentando con "una scena dalle risorse estremamente semplici". Dentro questo gruppo sempre più impegnato in un coraggioso repertorio americano e straniero (tra l'altro, Sonata di spettri e Un sogno di Strindberg, rispettivamente nel 1924 e nel 1926), si formò anche Eugene O'Neill,drammaturgo di origini irlandesi e figlio d'arte (il padre James era un noto attore), che aveva alle spalle una giovinezza avventurosa ed errabonda da marinaio. Con l'allestimento dell'Imperatore Jones di O'Neill, nel 1920, i Provincetown Players si impegnarono in uno dei primi esperimenti di scenografia espressionista in America, attirando vieppiù l'attenzione sul giovane autore. Tuttavia, l'indiscussa consacrazione di O'Neill come uno dei più importanti drammaturghi del secolo sarebbe avvenuta al John Golden Theatre di New York, la sera del 30 gennaio 1928, con Strano Interludio, un dramma che - nonostante una critica piuttosto tiepida - si sarebbe rivelato un "fenomeno nazionale": diciassette mesi in cartellone per 414 rappresentazioni; altre tre stagioni di repliche con due compagnie in tournée; 20000 compie del testo immediatamente smerciate; un Premio Pulitzer, più, nel 1932, un film con Norma Shearer, Clark Gable e la regia di Robert Z. Leonard. Strano interludio era stato concepito tra il 1926 e il 1927 e - come vuole Barbara Lanati - si collocava, a livello sia esistenziale che artistico, su un "interessante, problematico spartiacque fra il periodo di formazione di O'Neill" (soprattutto all'insegna di suggestioni naturalistiche, ma anche dei tragici greci e di Strindberg, riconosciuto come il drammaturgo "precursore di ogni modernità in teatro") "e la produzione della sua fase maggiore" (in particolare, la trilogia del Lutto si addice a Elettra del 1931, una vera e propria Orestea americana). In una lettera del 1925, O'Neill offriva la chiave della propria poetica e, in qualche modo, anche del testo che sarebbe venuto alla luce di lì a poco, affermando di cercare sempre di interpretare la vita in termini di esistenza, mai semplicemente le esistenze nei termini dei personaggi. Sono sempre acutamente consapevole della Forza che c'è dietro - (il Gato, comunque lo si chiami, Dio, il nostro passato biologico che crea il nostro presente, il Mistero, certamente) e dell'unica eterna tragedia dell'Uomo nella sua lotta gloriosa, destinata a distruggerlo, perché quella forza lo esprima a non ridursi, come l'animale, a un episodio infinitesimale della sua espressione. E la mia profonda convinzione è che questo è l'unico argomento su cui vale la pena scrivere, e che è possibile - o può diventarlo - sviluppare un'espressione tragica nel teatro in termini di valori e simboli moderni trasfigurati, la quale possa in certa misura fare capire agli spettatori moderni la loro nobilitante identità con le figure tragiche del palcoscenico. Il titolo di Strano Interludio si chiarisce in un paio di battute della protagonista Nina Leeds: "l'unica vita viva è nel passato e nel futuro...il presente è un interludio...uno strano interludio in cui chiamiamo il passato e il futuro a testimoniare che siamo vivi!..."; "Strano interludio! Sì, la nostra vita è soltanto uno strano, buio interludio nell'elettrico spettacolo di Dio padre". Nina è figlia di un docente universitario e ha perso in guerra il fidanzato, l'aviatore Gordon, cui aveva dovuto rinunciare per un'imposizione paterna. Infermiera, Nina si concede ai soldati che va a curare; quindi, trascurando lo scrittore Charles Marsden che spasima per lei, sposa Sam Evans solo per un desiderio di maternità. Centrato sulle tormentate esperienze sentimentali di Nina, nel corso di due parti e nove atti, questo testo fluviale o dramma biologico (com'è stato spesso inteso), largamente sviluppato con la tecnica del monologo intimo, che definisce i personaggi quasi come monadi, ci fa assistere, sette anni dopo, nel terzo atto, alla visita di Nina incinta dalla suocera. Qui apprende, con raccapriccio, che nella famiglia del marito scorre una vena di follia ereditaria. Spinta dalla stessa suocera, Nina abortirà e cercherà di soddisfare la sua ansia di diventare mamma nell'adulterio con il dottor Ned Darrell (già amico di Gordon). Incinta di costui, Nina pensa di abbandonare il marito, ma Darrell, turbato dai sensi di colpa, s'imbarca per l'Europa. D'altro canto, la nascita del piccolo Gordon paradossalmente migliora i rapporti fra la donna e il marito all'oscuro di tutto, e così, al ritorno di Darrell, Nina ha la forza di tenere in qualche equilibrio tutte le sue relazioni. Crescendo, Gordon si dimostra però insofferente nei confronti di Darrell, soprattutto dopo averlo colto a baciare la madre. In seguito, allorché il figlio si fidanza con Madeline Arnold, Nina, ormai invecchiata, vorrebbe rivelare alla ragazza (che detesta) il segreto della nascita di Gordon, ma viene fermata da Darrel e riesce a confidarlo solo a Marsden, ch'ella identifica sempre più con il padre professore. Il marito muore d'infarto il giorno in cui lo sportivo Gordon vince una regata e il ragazzo, quindi, si allontana con Madeline, sicuro che la madre sposerà il suo amante. Nina però respinge Darrell ("I nostri fantasmi ci tormenterebbero a morte") e resta sola con il fido Marsden, che l'ha accompagnata negli anni e ora la proteggerà paterno, sebbene, in definitiva, l'immagine eroica e pura dell'aviatore morto (che, nel nome, coincide col figlio) aleggi su questa vicenda lunga una vita, riscattandone tutto il torbido all'insegna di una sotterranea e in fondo mai estinta devozione spirituale alla sua memoria. Il testo è rappresentativo di un autore incline a fondere la tragedia classica, scandita in ampie sezioni e genesi familiari (Strano interludio si snoda a partire dal 1918 lungo tre decenni), quella elisabettiana e il dramma nordico ed espressionistico con la psicanalisi freudiana. In questo programmatico straripamento di riferimenti, l'operazione ha prestato il fianco a diverse satire, dai fratelli Marx di Animal Crakers (1928 - 1930) fino alla censura di Alberto Arbasino, insofferente dello sconcio abuso, nel copione, "dell'a parte dei guitti ottocenteschi non per spaccare la convenzione veristica", bensì per aggravarla "anche se si capisce bene che l'intento era invece di moltiplicare profondità e poeticità attraverso più piani di rappresentazione". Si può leggere tuttavia la drammaturgia di O'Neill anche come un modo colossale, coscientemente retorico e, nelle intenzioni, onnipotente di concepire la rappresentazione in emulazione con il romanzo e senza quasi riguardo del tempo scenico, nell'ambizione di un teatro che coincida nell'essenza, più che nella concretezza, con il fluire dell'esistenza come esperienza e come sogno. Non a caso, nel tempo, questa concezione attirerà registi come Luca Ronconi, di cui si ricorda, nel 1990, una memorabile realizzazione di Strano interludio inteso dal regista per quello che effettivamente si rivela: non un melodramma, ma "un corposo testo sperimentale". Già al debutto al John Golden Thatre, Strano interludio richiese sette settimane di prove a casa dell'inusitata complessità del copione, che fu presentato fra le 17.30 e le 19.00 con un'interruzione per la cena, riprendendo alle 20.20: una maratona di oltre quattro ore di spettacolo. Protagonista era Lynn Fontanne, che sarebbe stata "a lungo identificata con l'intensa, calcolatrice, intelligente e sensuale figura di Nina Leeds. Le scenografie di Jo Mieliziner, "realistiche e banali", presentavano comunque, nell'arredamento, una certa essenzialità che permise al regista Philip Moeller di spargere delle sedie nello spazio scenico, impedendo che i colloqui si facessero troppo intimi e accrescendo in tal modo l'isolamento dei personaggi. Nel corso dei protratti monologhi interiori, solo chi parlava aveva possibilità di movimento, congelando gli altri attori, ma creando in continuazione nuovi schemi prossemici nel passaggio degli a parte da un interprete all'altro.