Traguardi Se proprio si volesse indicare un traguardo emblematico per la nostra narrazione, questo potrebbe essere la rivelazione che, nell'estate del 1931, nel padiglione olandese dell'Esposizione coloniale di Parigi, Artaud ebbe della danza balinese. Conquistato (come quasi tutti i riformatori della scena del primo Novecento) da una pura teatralità rituale, Artaud trasfigura questa epifania, tornandovi a più riprese in una serie di saggi che in parte confluiranno nel Teatro e il suo doppio: "Lo spettacolo del teatro Balinese, fatto di danza, di canto, di pantomima - e pochissimo di teatro psicologico quale lo intendiamo noi in Occidente - riporta il teatro a un piano di creazione autonoma e pura, in una prospettiva di allucinazione e di sgomento". Se il teatro orientale ha una "tendenza metafisica" e quello occidentale una "psicologica", secondo Artaud, sussiste una vera e propria "infermità spirituale dell'Occidente" che deve essere aggredita da un teatro della crudeltà. Artaud andava ben oltre l'educata critica di Baty a Sir le Mot perché, per lui, "la novità del teatro Balinese è stata quella di rivelarci un'idea fisica e non verbale del teatro, secondo la quale il teatro sta entro i limiti di tutto ciò che può avvenire su un palcoscenico, indipendentemente dal testo scritto, mentre, come lo intendiamo noi occidentali, esso si confonde con il testo e finisce per esserne limitato". Il teatro non deve essere più "un ramo della letteratura", ma sviluppare "un linguaggio proprio" e di conseguenza uno spettacolo inteso 1) Come materializzazione visuale e plastica della parola. 2) Come il linguaggio di tutto ciò che si può dire e rappresentare su un palcoscenico indipendentemente dalla parola, di tutto ciò che torva la sua espressione nello spazio, o che può venirne influenzato o disgregato. [...] Il teatro orientale [...] partecipa della poesia intensa della natura e conserva magici rapporti con tutti i gradi oggettivi del magnetismo universale. In questa prospettiva magica e stregonesca, lo spettacolo deve essere considerato non come il riflesso di un testo scritto e della proiezione di "doppi" fisici che da esso scaturisce, ma come ardente proiezione di tutte le conseguenze obiettive che si possono trarre da un gesto, da una parola, da una musica, da un suono e dalle loro reciproche combinazioni. Certo Artaud reinventa, secondo i suoi bisogni, la realtàdel teatro balinese ma - a 35 anni dall'Ubu roi . rilancia un principio centrale e riassuntivo della rivoluzione incarnata dal Dio Selvaggio: "la sfera teatrale non è psicologica, ma plastica e fisica". Ciò avrà risonanze profonde nella Seconda Riforma del teatro a partire dagli anni Sessanta del Novecento fino ad oggi. E con questo, ci avviamo alla conclusione della nostra storia, riepilogando i destini, non di rado tragici, dei suoi protagonisti. Dal 1925, il cappio del realismo socialista aveva cominciato a serrarsi al collo dei registi russi; nel 1933, l'avvento al potere del nazismo aveva provocato l'esilio dei massimi esponenti del teatro tedesco, Reinhardt, Piscator e Brecht. Toller si sarebbe impiccato in un hotel di New York nel 1939, dopo essersi chiesto: "Che cos'è un autore che non è ascoltato nella sua lingua e che non può scrivere in un'altra?". Medesima sorte, nello stesso anno, si infligge Witkiewicz di fronte alla doppia invasione della sua patria, segnale di quell'"agonia" dell'Occidente - come scrive ad un amico -, "che io avevo prefigurato nei miei drammi e nei miei romanzi" e che " nessuna forza al mondo" sembrava in grado di evitare. Gli anni Trenta, del resto, furono gravidi di violenza: il primo lustro era sfociato nella guerra di Spagna, il secondo nell'inizio di un lungo e devastante conflitto mondiale. Il fosco decennio si apre con il suicidio di Majakowskijm che, poco prima di morire, lascia due drammi, La cimice e Il bagno, ormai disilluse satire delle rampanti borghesia e burocrazia cresciute dentro quella rivoluzione che aveva idolatrato. Nel 1936, proprio quando la sua fortuna a Broadway sembra scemare, il Nobel per la letteratura è attribuito a Eugene O'Neill e muore Pirandello (che aveva ottenuto il prestigioso riconoscimento due anni prima). Nel 1938 muoiono D'Annunzio e Stanislavskij; nel 1939 Yeats e Pitoeff (provocando così la dissoluzione della tenue alleanza del Cartel). Da tempo accusato di "formalismo" e censurato, Mejerchol'd (regista degli ultimi drammi di Majakovskij) viene inghiottito in una purga staliniana nel 1940; sarà riabilitato in URSS solo a partire dagli anni Sessanta. Durante il secondo conflitto mondiale, se ne sarebbero andati Lugné-Poe, nel 1940, e Antoine, ottantacinquenne, e Reinhardt, a New York, nel 1943; Marinetti - sconfitto, ma fedele a Mussolini - nel 1944. Supererà gli atroci anni della guerra (forse ancora più terribili, in Polonia) Limanovski, che scompare nel gennaio del 1948, pochi mesi dopo Osterwa, senza essere riuscito a realizzare il sogno di far risorgere Reduta dalle macerie di una nazione in ginocchio. Sempre nel 1948 muore Artaud, folle e consumato da un tumore che ha cercato di placare con le droghe; Copeau, Materlinck e Fuchs muoiono nel 1949; l'anno dopo, Tairov (appena espropriato del suo Teatro da Camera, con l'accusa di "cosmopolitismo estetico") e Nizinskij (malato di mente da quasi trent'anno). Nel 1956, muore Brecht, dopo aver fondato nella Germania dell'Est il Berliner Ensemble (1949): la sua lezione, contrapponendosi alla corrente del teatro dell'Assurdo, forgia larga parte della sperimentazione teatrale degli anni Cinquanta-Sessanta e oltre, pur risentendo di una parallela estetizzazione e omologazione da parte delle scene ufficiali. Solo Piscator, tornato dall'esiolio nella Germania Occidentale (dove, "per dirla gentilmente, fu trattato come il Grande Vecchio sopravvissuto a sé stesso"), e Craig sarebbero vissuti fino al 1966. Che bilancio si può tracciare delle esperienze di questi artisti? Di norma, le somme che si tirano solo quelle indicate da Jerzy Grotowski, nell'intervista del 1994, da cui abbiamo preso le mosse: E' stata la prima grande riforma di teatro che ha imposto l'esistenza del regista, e in una certa proporzione anche dello scenografo, e la nuova arte dell'attore che comporta la necessità di imparare certe tecniche, di trovare il modo di svolgere le prove non automaticamente e alla svelta, ma di dimostrare di che sviluppo è capace l'attore, quali ruoli deve interpretare nell'ambito di una compagnia teatrale stabile. Tuttavia, ripercorrendo l'intere vicenda e scendendo nello specifico, non riesce tanto facile parlare così in generale (e al di là delle ovvie differenze di poetica), per esempio, di una totalizzante definizione della regia, che, in Max Reinhardt, s'incarna classicamente nell'immagine fascinosa dell'artista in grado di "tenere in mano tutte le parti e farle confluire armonicamente l'una nell'altra" e, in Craig, magari si esalta in una sorta d'idealistico e più radicale assolutismo, ma, nel teatro agit-prop o epico, per esempio, si sfrangia in un lavoro collettivo. Nel Novecento, peraltro, come esiste una regia che si pone in funzione del dramma (in Francia in particolare), si deve riscontrare anche una drammaturgia che ingloba una strutturale ambizione registica (da Apollinaire a Witkiewicz a Pirandello e di "regia effettuale, come proiezione diretta di quella "scritta" si è parlato pure per La figlia di Jorio) oppure - ed è il caso del rapporto Majakovski-Mejerchol'd - di drammaturghi che con i registi trovano un peculiare equilibrio. Persino i futuristi italiani, che pure tanto hanno contribuito alla scenografia dinamica e implicitamente alla nuova regia, confidavano che gli autori assumessero "le funzioni di vero e proprio direttore" di uno spettacolo. Si danno anche situazioni, però, in cui è un attore che ha continuato il lavoro del regista: nell'Erik XIV di Strindberg, per esempio, "era impossibile percepire dove Michail A. Checov finisse e dove Vachtangov cominciasse. Il regista ed il suo attore - è stato scritto - erano complementari". La scenografia del primo Novecento poi meriterebbe un'attenzione particolare, rivelandosi spesso innovativa non dentro la regia, ma in parallelo ad essa. Anzi, riuscendo ad essere addirittura competitiva nei suoi confronti ed è Mejerchol'd, nel 1910, a confermarcelo: "Tra i registi e gli scenografi si sta svolgendo una lotta per il possesso della bacchetta di direttore". Certo come c'è regia e regia, c'è scenografia e scenografia. Se Appia e Craig sono due casi di teorici-artisit (e, in Appia, la scenografia si trasfigura addirittura in ritmo per il corpo attoriale), ne esistono molti altri di artisti scenografi che si sono spesi, quasi autonomamente, condizionando cioè la messinscena, sia sul fronte di una rivisitazione futuristica dello spazio scenografico sia conservando la propria cifra pittorica pressoché scissa dall'evento spettacolare e dalle logiche di regia sia inventando un teatro di cui la forma è latrice di significato (e qui viene in mente il caso Schlemmer). Se per il rapporto fra Liubov'S Popova e Mejerchol'd si potrebbe parlare di una sorta di combaciamento all'insegna della biomeccanica, nel caso dei Ballets Russes, ci troviamo effettivamente di fronte al contributo determinante di "pittori divenuti scenografi/régisseurs" così ingombranti che Gaston Baty, per appoggiare le ragioni della regia riformatrice, arriva a scrivere che la pittura di un Bakst, "stilizzata, sì, ma imperiosa, dominatrice, accaparrava l'attenzione del pubblico, a danno degli altri elementi spettacolari, altrettanto e forse più delle scene superflue e aneddotiche in prospettiva". Eppure questa critica non basta a minimizzare nella storia del teatro del Novecento il contributo dei più prestigiosi artisti dell'"avanguardia puramente pittorica" al rinnovamento del teatro, fino a invadere il campo del costume che lambì addirittura "l'arredamento, e tiranneggiò la moda". La Prima Riforma si sostanzia così di disparati impulsi e il magico termine regia (che ha un ruolo indiscutibilmente importante) si rivela una coperta corta per avvolgere completamente la riteatralizzazione del teatro, anche se può riuscire talora a sintetizzare (e ad appiattire) la complessità dei fermenti. Se di ricorrenze e non di differenze dobbiamo proprio parlare, ci paiono riscontrabili più sul piano di una diffusa vocazione pedagogica e di una parallela valorizzazione dei processi di prova sino a lambire la consunzione della nozione di spettacolo, che comincia a sfumarsi in esperienza esistenziale, politica o di gruppo. Altri elementi che ritornano sono la tendenza (non sempre anti emozionale) alla stilizzazione (con un frequente guardare ad Oriente) e l'invenzione di una diversa partecipazione del pubblico, anche concepito - nelle categorie ideologiche del secolo - come massa da aggregare a eventi laici in grado di sprigionare qualche residuo di energia, più che religiosa, rilegante. Un tratto frequente è, infine, una spiccata tendenza a una varia articolazione ritmica dello spettacolo, prevalente su ogni altra possibile declinazione. Qualche considerazione problematica anche per la condizione del teatro italiano nel contesto della Prima Riforma. Si è sovente parlato di differenza del teatro italiano del Novecento o anche di ritardo o anomalia. Quando si enunciano certi criteri, è normale chiedersi: rispetto a che? Ancora una volta, torna in campo il riferimento di tutta una serie di fenomeni generalmente coperti dal termine regia o dal binomio regia-pedagogia, che inducono la parallela disgregazione dell'antica componente della preminenza autoriale ed attoriale. A prescindere dal fatto che di anomalie, a livello internazionale, nei primi trent'anni del XX secolo, se ne possono trovare di non scarso rilievo anche altrove, e si pensi solo, nella sua particolare accezione, al caso della Gran Bretagna (che ha riverberi sul continente americano), se si accetta un riequilibrio del contributo delle varie componenti del teatro all'innovazione novecentesca, il quadro critico tende a distendersi, facendo affiorare la più neutra categoria di peculiarità. A questo punto, pur tenendo conto di resistenze e routine, che c'erano in tutta Europa, la peculiarità del nostro teatro del Novecento - non foss'altro che in virtù della triade D'Annunzio-Marinetti-Pirandello (e senza aggiungere il clamoroso contributo della scenografia di ispirazione futurista) - ci fa affermare che il Dio Selvaggio fu anche italiano. Concludendo, per quanto ardua appaia la reductio a poche caratteristiche del proteiforme Dio Selvaggio novecentesco, si trae la sensazione complessiva che gli esponenti della Prima Riforma intendessero conferire al teatro la stessa dignità che le altre arti (compreso il cinema) avevano acquisito nel processo avanguardistico novecentesco e insieme farne uno strumento che costituisse una dimensione creativa possibilmente specifica come un'occasione di armonia individuale e sociale.